Il 4 gennaio i mass media scrivono che l’ex poliziotto Alberto Savi (foto sopra), del commissariato di Rimini, condannato all’ergastolo insieme ai fratelli Fabio e Roberto ha potuto uscire dal carcere di Padova per un nuovo permesso premio (??). Nell’aprile del 2018 aveva ottenuto 3 giorni e mezzo per le feste di Pasqua. Gli sbirri assassini psicopatici che hanno ucciso 24 innocenti civili, e ferite altre 103 escono dal carcere!!! Si premiano quelle merdacce fasciste che sparavano a caso nei campi nomadi (vigliacchi! Sfogavano la loro ignoranza, il loro razzismo su delle persone che facevano fatica a vivere – a sopravvivere). Il magistrato Libero Mancuso dichiarò ai mass media: “che per l’orrore determinato dai fratelli Savi, in un’ampia area d’Italia e per il terrore scatenato, credo che i Savi andassero condannati per terrorismo”. Sbirri, merde fasciste, doppiogiochisti che facevano il doppio lavoro, lavoravano anche per i servizi segreti Atlantici anticomunisti, per creare caos e per imporre poi il fascismo integralista, la dittatura, la repressione e incolpare i comunisti o gli anarchici.
Forse molti non ricordano gli eccidi perpetrati dai criminali in divisa, la ‘banda della UNO BIANCA’, i fratelli Savi, che si susseguirono tra il 1987 e il ’94. Una lunga scia di sangue (82 delitti, 23 morti, centinaia di feriti) e un bottino di quasi due miliardi di lire. L’azione criminale dei fratelli Savi è stata eterodiretta, troppe armi, troppe munizioni, troppo sangue. A volte per un bottino di poche lire. Allora chi li proteggeva e perché? Il magistrato Spinosa documenta le voragini investigative, le bugie, i depistaggi operati dai Savi soprattutto in relazione ai rapporti che essi ebbero con la criminalità organizzata, cioè con la mafia catanese, con la camorra cutoliana (che trattò con lo stato per la liberazione di Ciro Cirillo) e casalese. Spinosa ricostruisce i numerosissimi interventi della ‘falange armata’, la misteriosa sigla che dal 1990 al ’95 segna ogni strage mafiosa e molti episodi misteriosi di quegli anni. Alla fine i nodi (che i processi non hanno voluto chiarire) vengono al pettine: l’arresto dei Savi è l’atto conclusivo di una strategia stragista di destabilizzazione di Cosa nostra e dei suoi referenti che finora nessuno aveva fatto emergere. Ce n’è abbastanza per riaprire un caso chiuso troppo in fretta.
Ma andiamo indietro nel tempo per analizzare meglio la storia:
Cinque dei sei componenti della banda di sbirri erano membri della polizia di stato: Roberto Savi, Fabio Savi, Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti. Solo Luca Vallicelli che partecipò alle prime rapine, quelle senza vittime, ha scontato una pena breve. È una di quelle storie che mina la fiducia nelle forze dell’ordine (per chi l’ha mai avuta…).
Se vieni dai quartieri di periferia, provi un forte odio per gli sbirri, perchè con la loro arroganza e ignoranza, hanno sempre inferto la loro prepotenza e violenza disumana su persone deboli, che non potevano difendersi, che arrancano per sopravvivere, gli sbirri uccidono! Uccidono anche i famigliari delle loro vittime (tra il sottoproletariato del quartiere), magari perchè li trovano a rubare al supermercato o a fare una rapina (‘la bella’, per cercare fortuna – obbligati per sopravvivere!).
Il problema di questa ‘banda della Uno Bianca’ è che non era formata dal sottoproletariato (dato per scontato), ma era formata da sbirri: 5 poliziotti e una donna. Tutti esponenti di una banda che per 7 anni e mezzo ha insanguinato due regioni italiane. I veri artefici della gang criminale sarebbero solo due fratelli Savi (fascisti psicopatici): Roberto e Fabio, l’uno poliziotto, l’altro no, ma che avrebbe tanto voluto diventarlo.
Roberto Savi (foto sopra), aveva gli occhi freddi,vuoti, simili a quelli di uno squalo. Non sapeva relazionarsi e aveva un carattere pericoloso, taciturno e spigoloso.
La vita privata di quella merda di Roberto Savi? Grigia e monotona come è stata la sua giovinezza durante la quale, dopo il diploma di perito elettrotecnico e prima di entrare in polizia, ha lavorato come portiere di notte in due alberghi di Riccione. Nessuna partecipazione ad attività di partito se si esclude un’assidua frequentazione, negli anni ’70, degli ambienti di destra e del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale. Prima di arrestarlo, viene perquisito il garage di casa sua e trovano un arsenale sterminato: pistole, fucili, polvere da sparo, esplosivo, munizioni di ogni tipo, parrucche e barbe finte e anche 230 milioni in contanti.
Fabio Savi invece era suo fratello e veniva chiamato “il Rambo”. Fabio viene catturato, assieme alla sua compagna Eva Edit Mikula, giovedì 24/11/1994, a 27 chilometri di distanza dal confine con l’Austria. Eva dichiarò ai magistrati che Fabio gli aveva raccontato che i fatti della banda della Uno bianca non erano nulla in confronto a ciò che aveva fatto nei servizi segreti!!
Fabio raccontò ad Eva che aveva cessato ogni sua attività coi servizi segreti nel febbraio del ’92, ma che aveva ancora persone dietro in quanto era a conoscenza di codici riservati.
“In un’occasione, al fine di farmi capire a cosa servissero i servizi segreti, mi disse che le stragi che sono successe in Italia sono state volute dallo Stato per rinforzare la fiducia della gente nella Polizia e nei Carabinieri”. Eva aveva 24 anni, ed è stata l’amante di un ufficiale dei servizi segreti dell’Urss, oggi dell’Ucraina, il colonnello Valeri Popov, e sarebbe collegata a un giro di trafficanti di armi.
Alberto Savi lo arrestarono il 26 novembre mentre stava partendo per Roma assieme al cognato, il fratello di sua moglie, anche lui in polizia. Doveva andare al ministero dell’Interno per discutere il suo trasferimento. Il padre Giuliano Savi, era un vero patriarca, di quelli che una volta la società contadina sfornava con metodica regolarità. Quando, dopo l’arresto dei suoi tre figli, la Ps per qualche ora lo dichiara in stato di fermo per poi rilasciarlo, sono in molti a Villa Verucchio a scommettere che, in qualche modo, con la banda della Uno bianca c’entra anche lui, quello psicopatico razzista del papà Giuliano, un uomo famoso in paese per il suo carattere violento e la sua repulsione, sempre sbandierata, per zingari e persone di colore. Iscritto al MSI, amante delle armi, racconta agli inquirenti di aver desiderato a lungo di entrare a far parte dell’organizzazione clandestina di Gladio di cui, a suo dire, faceva parte suo fratello Giovanni. Si vanta anche di suo padre, fondatore dei fasci di combattimento del suo paese che aveva partecipato alla ‘marcia su Roma’. Per molti la chiave per capire il delirio sanguinario dei suoi ragazzi è proprio lui. Originario di San Giorgio Piacentino, il padre Giuliano Savi, con la prima moglie Rosanna Foschi, si trasferisce nel 1944 a Forlì. A Forlì i Savi rimangono 17 anni. Nel 1954 nasce Roberto. Poco dopo Rosanna chiede la separazione da Giuliano a causa delle liti diventate sempre più frequenti, ma muore due anni dopo. Giuliano si risposa quasi subito con Renata Carabini e nel 1960 nasce Fabio. Poi, l’anno dopo, la famiglia Savi si trasferisce a Cesena, dove Giuliano continua la sua attività di pasticcere. Nel 1965 arriva Alberto. Nel 1977 il tracollo finanziario della sua piccola impresa lo costringe a lasciare anche Cesena, prima per Misano, dove papà Savi lavora come artigiano meccanico, e poi per Villa Verucchio, dove decide di trascorrere la sua vecchiaia, prima anche con la famiglia di Fabio, e poi, dopo la separazione di quest’ultimo, assieme a sua moglie Renata e alla famiglia di Alberto. E coi suoi inseparabili 20 fucili da caccia, infilati nella rastrelliera che fa bella mostra all’ingresso di casa (logica militare cattolica integralista).
Insieme a Alberto Savi è stato arrestato anche Pietro Gugliotta (foto sopra), 34 anni, uscito dalla “Dozza” grazie all’indulto e alla legge Gozzini, dopo aver scontato 14 anni di reclusione. Anche lui ha lavorato sulle volanti, assieme a Roberto Savi. Catanese, Gugliotta, in Ps dal 1982, si è trasferito a Bologna a metà degli anni ’80, dopo aver prestato servizio prima a Milano e poi a Firenze. Ad incastrarlo un video amatoriale, una videocassetta trovata a casa di Roberto Savi. Un nastro molto misterioso: ufficialmente si tratterebbe di un videotape oscurato che originariamente conteneva scene pornografiche. Per cancellarlo, Roberto e Pietro non hanno trovato di meglio che farlo girare in una telecamera puntata contro una parete. Le immagini sono scomparse, ma sono rimaste incise le voci dei due che parlano di rapine, sopralluoghi e appostamenti. La seconda versione contiene una specie di depliant per il traffico delle armi, con tanto di sottotitoli in lingua slava, dove però si sentirebbe proprio la voce di Gugliotta, col suo accento marcatamente siciliano. Appena arrestato Gugliotta crolla. E confessa subito una strage evitata per un soffio: l’assalto all’ufficio postale di via Emilia Levante a Bologna, con impiego del tritolo: un morto e 45 feriti, quasi tutti anziani che attendevano di ritirare la pensione.
Martedì 29 settembre gli ultimi due arresti. Anche loro sono poliziotti. Marino Occhipinti (foto sopra), 29 anni, è romagnolo, di Santa Sofia, nel forlivese. Sposato, due bambine di 3 e 6 anni, da 10 anni in polizia, diploma dell’Istituto alberghiero, è vice-sovrintendente alla questura di Bologna. Lo prendono a casa sua, a Castelmaggiore. Ha lavorato prima sulle volanti, assieme a Roberto Savi, e da quasi 3 anni è in forza alla squadra mobile, sezione narcotici. In passato Occhipinti aveva svolto anche attività sindacale come delegato del SAP, il sindacato autonomo di destra. Il suo arresto crea sorpresa in questura, molto più degli altri. Lui è considerato dai colleghi un cavallo di razza, una pedina vincente. Perché l’ha fatto? Interrogato subito dopo l’arresto, spiega: «Roberto Savi se ne andava in giro mostrando delle mazzette di denaro di piccolo taglio, voleva vedere come reagivamo. Cominciammo a parlare di rapine così, per scherzo, poi passammo a compierle davvero. Io stavo per sposarmi, avevo bisogno di soldi». Occhipinti ammette di aver fatto parte della banda della Uno bianca quando questa era ancora chiamata la banda della Regata, per il modello di auto usata nell’assalto ai caselli autostradali. Ma solo tra il febbraio e il settembre del 1988. Roberto lo accusa invece di un attacco cruento, quello alla Coop di Casalecchio, il 19 febbraio dello stesso anno, in cui trovò la morte la guardia giurata Carlo Beccari.
Anche l’ultimo degli arrestati è un perfetto insospettabile. Luca Vallicelli (foto sopra), 31 anni, di Meldola (Forlì), scapolo, diploma di perito termotecnico, da 10 anni in Ps, agente scelto in servizio al Caps, il centro addestramento della polstrada di Cesena, la scuola dove si formano gli agenti della polizia stradale. Anche Vallicelli viene però dalla questura di Bologna, dove dal 1986 ha prestato servizio al reparto mobile. E pure lui viene considerato (dai colleghi), un bravo agente. Lo ammanettano mentre sta uscendo da un bar del suo paese, assieme alla fidanzata. Era appena tornato da una vacanza sul mar Rosso. Ma quanti sapevano dell’esistenza di quella banda del terrore? Sono ricomparsi, improvvisamente, dopo anni di silenzio nell’agosto del 2001 a ridosso dell’attentato al palazzo di Giustizia di Venezia. Ma tra il 1990 e la fine del ’94 avevano fatto più di 500 telefonate. Una presenza continua e angosciante. Dopo quasi ogni grave fatto di sangue accaduto in Italia, a partire dalla primavera del ’90, eccoli formare il numero delle redazioni delle agenzie di stampa o dei quotidiani per dettare la loro rivendicazione di morte, spesso con la voce artefatta, a volte parlando un italiano con falso accento tedesco. Sono loro. Sono i telefonisti della Falange armata. “Terroristi della disinformazione che lavorano in orario di ufficio”, come li definì Nicola Mancino quando era ministro dell’Interno.
“Gente che ha la piena disponibilità di una rete informativa all’interno dell’apparato pubblico”, come ritiene la magistratura. Nonostante un’approfondita inchiesta aperta dal sostituto procuratore di Roma Pietro Saviotti, ancora oggi gli elementi certi sulla Falange armata sono pochissimi. Si sa per certo che non è gruppo terroristico nel senso stretto. Non predilige un particolare evento criminoso ma, di volta in volta, chiama per attribuirsi la paternità anche di delitti di mafia, come avvenuto dopo l’assassinio di Salvo Lima o dopo la strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta.
Nella lunga vicenda della banda della Uno bianca, la presenza della Falange armata è stata asfissiante. Nella storia della banda, c’è una coincidenza di date spaventosa tra l’accelerazione di ferocia e di crudeltà che, sul finire del 1990, i poliziotti killer imprimono alle loro gesta e una serie di eventi che scuotono le fondamenta della repubblica.
Analizzando il comportamento criminale della banda della Uno bianca, abbiamo potuto osservare tre fasi: La prima fase, la fase 1. Inizia il 19/6/1987, con la prima azione: una rapina ad un casello autostradale. E si protrae per tutto il resto dell’anno quando di caselli ne vengono assaltati ben 12. Questa fase termina il 30 gennaio dell’anno successivo, il 1988, quando la banda cambia metodi e obiettivo. Sempre rapine, sempre assalti, ma questa volta assalti molto violenti, con grande spiegamento di armi. Assalti parossistici, nervosi, drammatici che finiscono nel sangue. Questa seconda fase, la fase 2 (chiamata ‘Attacco alle Coop rosse’), dura per tutto il 1988 e si protrae fino ad occupare il 1989.
L’inizio della fase 3 coincide con l’inizio del 1990 e con l’arruolamento nella banda di Pietro Gugliotta. Gli obiettivi più frequenti diventano gli uffici postali e poi i distributori di benzina (terrorismo psicologoico). Proprio sul finire del ’90, gli assassini non cercano più di dissimulare il loro assoluto disinteresse per il denaro, per il profitto delle loro imprese criminali e piazzano tra l’ottobre del ’90 e i primi di gennaio del ’91 otto azioni di una violenza inaudita, che lasciano sul terreno ben 8 morti e 15 feriti, molto più delle vittime che la banda nell’insieme ha mietuto nei 2 anni e mezzo precedenti.
Proprio nello spazio di questi 3 mesi, la banda della Uno bianca va dritta al cuore del suo problema: smette di cercare vittime occasionali, uccise davanti ai supermercati, ma comincia a dare l’assalto ad inermi immigrati nordafricani e abitanti di campi nomadi, a pattuglie di giovanissimi carabinieri che di notte fanno la ronda in un quartiere alla periferia di Bologna.
Questa è la terza fase che si protrarrà fino alla metà del 1991, dopo altre 6 vittime e un agguato a una pattuglia di cc che sembra la fotocopia dell’attacco del Pilastro, una misteriosissima telefonata della Falange armata dichiarerà la messa in disarmo della banda stessa, ossia completamente “disattivata”.
Da quel momento la banda finirà per concentrarsi unicamente sulle rapine alle banche, molto più remunerative, la fase 4, che li riempirà di soldi. E che li porterà ad uccidere soltanto (si fa per dire, ovviamente) altre 3 persone.
Una banda armata nello stato. Ecco, in estrema sintesi, che cosa è successo in Italia, a partire dall’estate 1990, fino al periodo in cui si concentra l’orgia di sangue dei pazzi assassini della Uno bianca: 2 luglio 1990: nel corso di una trasmissione televisiva, il Tg1 manda in onda un’intervista con Richard Brenneke (foto sopra), un ex agente della Cia, che denuncia le responsabilità del servizio segreto americano e della P2 nel finanziamento del terrorismo italiano. E’ una trasmissione che manderà su tutte le furie il capo dello stato Francesco Cossiga, il quale chiederà e otterrà la testa dei direttore del telegiornale, Nuccio Fava.
Il 20 luglio: il giudice istruttore di Venezia Felice Casson, che indaga sulla strage di Peteano (tre carabinieri uccisi con un’autobomba nel 1972), chiede ed ottiene dal presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, il permesso di mettere il naso negli archivi del Sismi, il servizio segreto militare. Un ex ufficiale del servizio gli ha infatti rivelato che proprio nel 1972 i servizi segreti militari smantellarono 139 depositi clandestini di armi ed esplosivo, denominati ‘nasco’ (da nascondigli). Quei depositi erano stati sistemati in Italia in accordo con la Cia.
Il 30 luglio: cossiga si dice vittima di un complotto a causa di una serie di articoli di stampa che ricordano i suoi incontri col venerabile maestro della loggia massonica P2 Licio Gelli.
I legami della P2 con la C.I.A. (intervista a Richard Brenneke) 1/2
www.youtube.com/watch?v=Irm4vZilpiU
I legami della P2 con la C.I.A. (intervista a Richard Brenneke) 2/2
www.youtube.com/watch?v=X-poxdvzy5s
L’inchiesta – I legami tra la CIA e la P2
www.youtube.com/watch?v=5Koi4gv53_c
Ci si dica pure che siamo dei “senza patria”:
può anche darsi che sia così. Ad ogni modo,
se una patria noi dovessimo scieglerci,
scieglieremmo sempre la patria degli oppressi,
e non quella degli oppressori.
Errico Malatesta
Solidarietà ai compagni/e ingiustamente incarcerati/e
Cultura dal basso contro i poteri forti
Rsp (individualità Anarchiche)