STATO DI POLIZIA:
La regola dell’impunità
Con la pilatesca sentenza del tribunale di Napoli (stato di polizia “La tortura moderata”) – che ci porta dalla tortura all’impunità – ha delle affinità, pur inserita in un clima tutt’affatto differente, quella emessa dal tribunale di Milano nel febbraio 1970, relativa al processo per i fatti di via Larga (19 novembre 1969) in cui mori la guardia di pubblica sicurezza Antonio Annarumma. Questa sentenza fu salutata da più parti come “coraggiosa” mentre le parti opposte la giudicarono “scandalosa”; il motivo dei due contrari giudizi era lo stesso: la magistratura, per una volta, non aveva accettato interamente e integralmente le versioni dei fatti passatele dall’autorità di polizia.
Il questore Guida in un’intervista ad un settimanale cosi presentava lo svolgimento degli eventi che avevano portato agli scontri in cui avrebbe trovato la morte Annarumma: “Le jeep voltarono allora dalla parte di via Rastrelli e un vecchio – che non si fece nulla – fu urtato accidentalmente. Gli agenti furono insultati, circondati e aggrediti dalla folla. Per salvarsi e rompere l’accerchiamento iniziarono un tentativo di retromarcia e di sganciamento; manovra alla quale sono abituati. Poi accadde la tragedia, per la volontà aggressiva di qualcuno, perché gli incidenti furono voluti e provocati.”” Il tribunale ricostruisce invece cosi l’inizio degli scontri: “Le risultanze processuali [ … ] hanno [ ] chiarito come gli agenti della colonna di Polizia [ ] che li circondava e che in parte li premeva e li invitava ad andarsene, ritenendo che fosse in atto una situazione di pericolo che andava affrontata ed eliminata, abbiano ritenuto, senza aver ricevuto specifici ordini al riguardo, che non restasse altra alternativa che il ricorso alle evoluzioni dei mezzi, come soluzione estrema per uscire da una difficile situazione: evoluzioni e caroselli che dovevano poi rivelarsi come la causa determinante dell’increscioso e grave stato di tensione determinatosi tra cittadini e forze di polizia e come la scintilla da cui scaturirono i successivi gravissimi incidenti, prolungatisi a lungo nel tempo. Al dibattimento si è, infatti, anche chiarito come la reazione violenta della folla [ … ] abbia coinciso coi caroselli e le evoluzioni compiuti dai mezzi di polizia, mentre, in precedenza, non vi era alcun specifico atteggiamento aggressivo dei presenti.”” Il sugo rivoluzionario della pronuncia dei giudici milanesi sta in codesta parte della sentenza; in essa, in sostanza, si dice che se gli incidenti furono “voluti e provocati” da “qualcuno,” il qualcuno fu proprio la polizia: e di conseguenza avrebbe dovuto essere impostata la parte successiva della sentenza, tenendo anche conto che il dottor Guida aveva dichiarato, con la protervia che contraddistingue il rappresentante del potere sicuro della impunità che il suo ruolo gli garantisce, nella citata intervista: “Mi assumo tutta la responsabilità, rispondo di fronte alla magistratura e di fronte alla mia coscienza.” Al contrario, la sentenza – di un processo, non lo si dimentichi, in cui gli imputati erano i dimostranti, che avevano reagito all’attacco poliziesco, e non i poliziotti che quest’attacco avevano sferrato – proseguiva spiegando, del tutto sofisticamente, che se da un lato la reazione della folla all’aggressione della polizia era legittima, e dall’altro vi erano stati “degli eccessi nell’espletamento delle loro funzioni da parte di pubblici ufficiali,”
ciò non bastava tuttavia ad assolvere tutti gli imputati, i quali altro non erano che parte di quella folla che aveva legittimamente reagito ad un intervento arbitrario ed ingiustificato delle forze dell’ordine (mai come in quell’occasione rivelate si forze del disordine), e, meno che mai, evidentemente, era sufficiente, nell’opinione dei giudici, ad aprire un’inchiesta sul comportamento della polizia e dei suoi dirigenti. Un bel gesuitismo, non c’è che dire. Il tribunale in definitiva ammetteva che non è sempre, automaticamente, la polizia dalla parte della ragione , proprio perché polizia, è immune da inchieste e censure. Lo stesso tono di reverenza e ossequio adoprato dall’estensore della sentenza palesando il timore di suscitare delle rimostranze in chi essendo alleato non può essere sottoposto a critiche, anche velate, rivela con chiarezza la natura del “controllo” che si pretende esista sulla polizia in Italia. La magistratura non controlla le forze di polizia; ma è solidale con esse. Codesto assunto è ampiamente dimostrabile non solo attraverso l’esame di tutte le situazioni di conflittualità in cui le forze dell’ordine sono state protagoniste, o anche di tutti i casi di violazioni patenti delle leggi da parte di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria nell’adempimento delle loro funzioni investigative; il mancato controllo, la effettiva solidarietà tra questi due aspetti del potere repressivo, il braccio e la testa per semplificare, appare macroscopicamente soprattutto nei momenti di tensione sociale più vivi nel paese, allorché lo stato borghese ha con assoluta urgenza la necessità di ristabilire gli equilibri turbati scoraggiando le masse, di Reggio, Roma e provincia furono poste in uno stato d’assedio non dichiarato. In una delle escursioni connesse alle operazioni, a Gennazzano tre ragazzi vennero fermati dai celerini mentre scrivevano sui muri scritte contro Tambroni e il suo governo; i tre furono trascinati nella caserma dei carabinieri e qui, non essendo un reato scrivere, i tutori della legge decisero di dare una lezione un po’ particolare ai malcapitati, improvvisandone sul momento regole e contenuti. Uno alla volta i tre subiscono lo stesso imparziale trattamento da parte degli sbirri che si danno regolarmente il cambio fra di loro per far durare più a lungo lo spasso, la gara; i tre vengono alla fine lasciati andare: gli sbirri non ne possono più, i giovani sono tragiche maschere di sangue. Qualche tempo dopo un sostituto procuratore di Roma, tale Lojacono, chiedeva l’archiviazione della denuncia contro i poliziotti, presentata dai giovani, “perché il fatto non costituisce reato”. E chi avrebbe potuto dargli torto, dal momento che i giudici di Milano avevano stabilito che non costituisce reato, per la polizia, nemmeno l’omicidio?, domandando, però, consequenzialmente, l’incriminazione dei tre per “resistenza a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni” e “oltraggio al governo….
Si potrebbe a questo punto fare una casistica sterminata dei fatti che in mille occasioni hanno dimostrato con brutale evidenza la collocazione reale del magistrato, in quanto tale, a latere del poliziotto, nella gestione della violenza capitalistica. La differenza dei due organismi non sta tanto nel fatto che l’un corpo sia armato e l’altro no (è anche questo, evidentemente), quanto piuttosto nei diversi ruoli che essi sono delegati a svolgere: il potere di polizia risiede nell’uso delle leggi (quando la legge fornisce il cittadino di una salvaguardia contro l’autorità dello stato la si calpesta, quando la legge pone un limite all’azione della forza di polizia, la si ignora, quando la legge è ambigua o vaga, la si interpreta a vantaggio della propria autorità, quando la legge va contro i diritti del cittadino, la si esegue rigidamente), il potere giudiziario – si parla sempre nell’ambito del rapporto polizia-magistratura – consiste nella garanzia dell’uso siffatto della legge. Secondo le teorie che il potere ci insegna per bocca dei suoi istitutori è la magistratura ad applicare la norma di legge, la polizia si incarica di farla eseguire e rispettare; in realtà, è, in certo senso, il contrario. Il poliziotto agisce, a seconda delle direttive che il potere politico impartisce, non importa se nella legge o contro di essa; c’è li, pronto, il magistrato che si preoccupa di giustificare in ogni caso il comportamento del poliziotto, di legalizzarlo quando non lo sia, di sottolineare l’esistenza di una precisa norma che dispone in quel certo modo, in caso contrario. Come si spiegherebbe altrimenti che uno dei più inutili articoli di legge del nostro ordinamento giuridico sia stato proprio, finché è stato in vigore, quell’articolo 16 del codice di procedura penale contro di cui tanto si sono battute, in buona fede democratica, le opposizioni di sinistra e i liberali? Esso disponeva, com’è noto, che “non si procede senza autorizzazione del ministro della giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per atti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”; ma non c’è stato che pochissime volte necessità di tirarlo concretamente in causa. E in genere, tutte le volte che un magistrato ha avuto l’esigenza o l’ardire di domandare al ministro l’autorizzazione a procedere, il ministro non ha avuto difficoltà a concederla, perché – salvo casi eccezionali – si rendeva conto che quando un giudice istruttore giungeva a tal punto esistevano motivi di opportunità politica che ve lo avevano determinato e quegli stessi motivi facevano si che il ministro dovesse accogliere la domanda. L’art. 16 rappresentava un’arma troppo screditante, e del tutto secondaria. Nella seduta del senato del 3 aprile 1957 vennero espressi due contrastanti pareri sulla nostra legislazione di PS: i senatori Terracini e Leone sostennero concordemente che nessuno stato europeo ha una legislazione vasta e oppressiva come quella italiana; l’onorevole Tambroni, ministro dell’interno affermò di rimando che “nessuna legislazione di polizia in Europa è migliore di quella italiana,” e che chi asseriva il contrario non solo offendeva la verità ma altre si contribuiva a creare uno stato di permanente rivolta contro le istituzioni. Il fatto che Tambroni esaltasse apertamente le leggi di polizia italiane fornisce già una prima indicazione su queste leggi, un primo approccio alla analisi di esse. Un difensore più recente della legislazione di polizia fu il senatore Ajroldi: relatore democristiano al disegno di legge Taviani-Reale del 1966, ammettendo che il disegno governativo “non propone nel suo insieme una nuova legge di PS ma, nella struttura schematica di quella esistente, opera le enucleazioni, introduce le modifiche,” affermò, con una sfacciataggine superiore a quella mostrata da Tambroni, che “è da escludere che cosi operando vengano a cristallizzarsi strutture dell’ordinamento totalitario: infatti,” proseguì imperterrito il relatore, “il legislatore del 1926 e del 1931 si è avvalso per quelle riforme della stessa sistematica della legge Crispi del 1888-1889 reintroducendo in ordine alle attribuzioni di PS, sia pure in forma dettagliata, quei principi che si rinvengono nella già ricordata legge del 13/11/1859, n. 3720 e nell’allegato B alla legge del 10 marzo 1865, n. 2248.”’ Senza rendersene conto il parlamentare democristiano ammetteva che la legislazione di polizia in Italia ha una continuità di segno reazionario che partendo dal Regno di Sardegna, passando per Crispi e Mussolini, giunge fino ad oggi, alle intenzioni e agli intendimenti governativi odierni.
Osserviamo le caratteristiche del t.U. 18 giugno 1931, n. 773 (a sua volta figlio del – t.u. 6 novembre 1926, n. 1448) e in genere delle leggi di polizia vigenti. Abbiamo visto in precedenza che il fascismo coi testi del 1926 e poi del 1931, che segnavano un ulteriore appesantimento in senso illiberale dell’originario testo del 1865 – prima formulazione organica di leggi di PS -, si proponeva di affermare un preciso concetto di ordine pubblico, non limitandosi più alla negazione del concetto opposto (il disordine, cioè). Il problema del legislatore fascista era di dilatare la sfera dell’estensione della norma legislativa, e nello stesso tempo di allargare corrispondentemente il raggio di applicabilità della norma stessa da parte dei rappresentanti dell’imperio dello stato; accanto a codeste esigenze primarie si poneva quella altrettanto importante di garantire una totale e assoluta impunità dei rappresentanti delle forze di polizia che sulla base delle leggi dovevano muoversi senza possibilità di intralci alla loro azione; il testo di legge fascista, infine, corrispondendo a un periodo storico in cui la dittatura della borghesia si era affermata col terrorismo (repressione) sui lavoratori, non poteva non accentuare in senso classista la formulazione della legge. Ne consegue che la generalità, la discrezionalità, la politicità e l’impunità sono le quattro basilari caratteristiche del testo di PS. Tutte e quattro tornarono comode allo scelbismo, nuova fase di attacco alla classe operaia e al movimento contadino, benché l’uso delle leggi fasciste fosse del tutto secondario nella politica di Scelba e De Gasperi, come poi in quella di Tambroni: come all’avvento del fascismo, la polizia agiva in aperto dispregio di tutte le leggi che potessero valere da baluardo al cittadino, all’operaio, contro la prepotenza e l’arbitrio del rappresentante dell’amministrazione dello stato. Delle leggi la borghesia finge di preoccuparsi quando deve instaurare la pace sociale susseguentemente agli attacchi contro le classi da essa dominate; e, ad ogni buon conto, tra le leggi ci sono sempre e comunque quelle utili da essere adoperate a sostegno del privilegio di classe (il codice penale, le leggi di polizia, in tutti :gli articoli che esprimono più marcatamente la dittatura classista) e quelle che servono da volgare copertura all’esercizio di quel privilegio (la costituzione in primo luogo, gli articoli dei codici e delle altre leggi che salvaguardano i diritti dei “sudditi”). Infine, ed ecco il ruolo della forza di polizia nello stato borghese, sussiste sempre la possibilità di adoperare la forza: ma non più, come prevede la scuola liberale catto fascista, a difesa del diritto, ma contro il diritto; capovolgendosi le funzioni, è il diritto che difende la forza, quale che sia l’uso che di essa venga fatto. La diversa disposizione dell’ordine di codesti fattori non cambia il prodotto: la conservazione del dominio di classe. Il fatto che in certi periodi storici venga anteposta la violenza pura assoluta immotivata dal punto di vista giuridico (Depretis-Nicotera, Di Rudini, Pelloux, avvento del fascismo, De Gasperi-Scelba, Tambroni, Federico Umberto Damato,Taviani ), mentre in altri momenti della storia sia il diritto a precedere, cambia ben poco la situazione di fondo: il mutamento investe invero solo le forme della dittatura di classe, la sostanza per l’operaio e il povero rimane identica.
No Tav, per la Cassazione l’assalto al cantiere non fu terrorismo….
01 dicembre 2015
Terrorista è lo stato, coi suoi piani militari che mietono sempre più vittime innocenti: strategia della tensione – False flag (strage di piazza fontana, strage della loggia, strage di bologna ecc.).
In una azione diretta di boicottaggio, durante la notte, volarono bottiglie incendiarie, razzi, petardi, bombe carta contro il cantiere della Torino-Lione. Nessuno rimase colpito o ferito. Venne dato alle fiamme un compressore e provocato danni per 94 mila euro (secondo l’impresa appaltatrice…). Ma non fu un atto “con finalità terroristiche”, l’atto di rivolta compiuto dai No Tav la notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013.
Con queste motivazioni la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avanzato dalla procura nei confronti di Lucio, Graziano e Francesco. Il reato di terrorismo, era stato già contestato ai primi quattro arrestati per quell’assalto (Claudio, Niccolò, Mattia e Chiara) ed era già “caduto” con una prima pronuncia della Cassazione.
Solidarietà a Lucio, Graziano e Francesco
L’utopia vince sempre contro questo sistema nobiliare massomafioso (P2) corrotto che, con la complicità degli sbirri (fedeli servi spietati e con poco cervello, cani da guardia cresciuti in cattività, addestrati a obbedire al più forte), cerca sempre di reprimere le nostre idee….
Nonostante tutta la merda attorno, possiamo essere i migliori…
W L’ANARCHIA!!!
https://www.youtube.com/watch?v=pJFcqWWX6sw
Solidarietà anche a tutti gli arrestati per le manifestazioni del G8 di Genova 2001 (dove Carlo Giuliani venne ucciso e centinaia di ragazzi vennero deliberatamente torturati e massacrati dalle “forze dell’ordine”) e per le proteste in val Susa contro la militarizzazione, le speculazioni e le devastazioni ambientali della massomafia, ingorda, bigotta e arrivista ……
NO TAV!
CULTURA DAL BASSO CONTRO I POTERI FORTI
Rsp (individualità Anarchiche)