ISTAT: occupati in crescita dello 0,3% Ma cos’è il Jobs Act?
A luglio 2017 l’Istat stima gli occupati in crescita dello 0,3% rispetto a giugno (+59 mila) e dell’1,3% rispetto a luglio 2016 con una crescita di 294 mila unità. Gli occupati sono a luglio 23,063 milioni di persone, il massimo a partire da ottobre 2008 (quando erano 23,081 milioni). “Ancora molto da fare contro disoccupazione ma effetti positivi da jobs act e ripresa”. Così su Twitter il premier Paolo Gentiloni commenta i dati Istat sull’occupazione.
Ma andiamo a vedere che cosa è il Jobs Act!!
Durante il governo Letta, nel gennaio 2014 Matteo Renzi, eletto neo-segretario del Partito Democratico, promosse l’idea di una riforma del mercato del lavoro con l’introduzione di un contratto unico a tutele crescenti, della creazione di un’agenzia nazionale (agenzie interinali) per l’impiego e di un assegno universale di disoccupazione, oltre che di semplificazione delle regole esistenti e di riforma della rappresentanza sindacale. Col successivo governo Renzi, il premier Matteo Renzi e i suoi ministri emanarono la riforma conosciuta come Jobs Act, dividendola in due provvedimenti: il decreto legge 20/3/2014, n. 34 (anche noto come “decreto Poletti”) e la legge 10/12/2014, n. 183, che conteneva numerose deleghe da attuare con decreti legislativi, tutti emanati nel corso del 2015. Nello stesso anno, sebbene il governo l’abbia più volte negato (perché incostituzionale), secondo la sentenza della Suprema Corte di Cassazione (sezione Lavoro) del 26/11/2015, n. 24157 la normativa si applicherebbe anche ai dipendenti statali. Tale orientamento è stato però ribaltato dalla successiva sentenza n. 11868 del 9/6/2016; che afferma che ai dipendenti pubblici si applicherebbe l’art. 18 dello statuto dei lavoratori come non modificato dalla riforma del lavoro Fornero. Secondo il rapporto ISTAT di settembre 2016 il numero di occupati in Italia risulta 22.83 milioni di persone, incrementati di 563.000 unità rispetto al marzo 2014 in cui essi erano 22.27 milioni (per occupati s’intende, per convenzione statistica internazionale, coloro che hanno svolto almeno un’ora lavorativa remunerata nella settimana precedente alla rilevazione, comprendendo quindi anche come mezzo di pagamento i voucher). La legge è stata apprezzata solo dai poteri economici delle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca Centrale Europea e l’OCSE.
L’articolo 18 ha cominciato a subire delle grosse modifiche con la legge Biagi del 2003, passando attraverso la legge 183/2010 e la riforma Fornero (legge 92/2012), la disciplina del lavoro ha subito trasformazioni profonde; trasformazioni ancora più profonde sono prefigurate nella legge delega 83/2014 (detta Jobs Act) e stanno prendendo corpo nei decreti legislativi di attuazione della delega, primo tra tutti il decreto 23/2015 (con un’accentuazione marcata di flessibilità rispetto alla legge Fornero), sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Esiste, un problema di compatibilità costituzionale al modello di flessibilità che si sta realizzando, a causa dell’erosione dei diritti fondamentali dei lavoratori, per capire meglio basterebbe citare i principi fondamentali contenuti negli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 4 (diritto al lavoro), senza dimenticare l’articolo 1 (la Repubblica “fondata sul lavoro”) della Costituzione. Con l’articolo 1, comma 6, lettera b della legge delega 183/2014, si delega al governo e non più ai sindacati (Statuto dei Lavoratori) i diritti dei lavoratori. Quelli possono essere considerati due buoni esempi di delega “in bianco”, di cui è, per ciò stesso, fortemente dubbia la conformità all’art. 76 della Costituzione. Il Jobs Act ha due problemi di incompatibilità costituzionale: la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti e la precarizzazione del contratto a tempo indeterminato. Il nuovo contratto a tempo indeterminato (detto “a tutele crescenti”: (ma di quel modello si sono perse anche le tracce) presenta come caratteristica essenziale la soppressione del diritto alla reintegrazione. La reintegrazione è sostituita da un modesto indennizzo, crescente in ragione dell’anzianità di servizio ma entro un tetto massimo (di 24 mensilità di retribuzione), ovvero da un indennizzo ancora più modesto accettato dal lavoratore a fronte della proposta conciliativa offerta dal datore di lavoro, con contestuale rinuncia all’impugnazione del licenziamento. Regimi differenziati dei licenziamenti erano stati a suo tempo (2003) ritenuti “ragionevoli” dalla Corte costituzionale, ma nessuno degli argomenti usati dalla Corte è spendibile a fronte di una disciplina sostanzialmente omogenea per tutti i nuovi assunti (diversificare i diritti dei lavoratori, soprattutto quando si tratti di piccole unità produttive), ma fortemente differenziata rispetto a quella dei lavoratori già in forze (che godono ancora della tutela di cui all’articolo 18, nella versione già depotenziata dalla legge Fornero). Ecco perché il governo ha scelto la strada dell’eutanasia dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E certo non costituisce una ragionevole giustificazione la disparità di trattamento, con lo scopo di favorire le assunzioni a tempo indeterminato, perché questo contratto declassa i diritti dei lavoratori e incentiva solo i padroni, che ottengono bassa manovalanza (anche laureati) a costi minimi, ricevendo dallo stato anche incentivi e sgravi fiscali per assumere personale.
Il contratto a tutele crescenti è concepito come contratto concorrenziale in termini di costi diretti (incentivi e sgravi contributivi) e indiretti (flessibilità in uscita) rispetto al contratto a termine. Il decreto 23/2015 riscrive il contratto a tempo indeterminato in modo tale che la regola comunitaria perde di senso. Questa regola nella sostanza significa che deve essere privilegiato il lavoro stabile rispetto al lavoro precario; ma avendo reso instabile il contratto a tempo indeterminato, attraverso la decostruzione della tutela contro i licenziamenti ingiustificati, questa regola perde appunto di senso. Indubbiamente la forte riduzione dei costi del contratto a tutele crescenti e la sua appetibile instabilità lo rendono tanto concorrenziale rispetto al contratto a temine, da far presagire un forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato: ma non è la concorrenza tra contratti instabili l’obiettivo cui tende la regola comunitaria. La riflessione dovrebbe essere centrata sul valore costituzionale della stabilità, come deducibile dall’articolo 4 della Costituzione, nonché dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, come integrato dall’art. 24 della Carta sociale europea. A partire dal lontano 1965 il principio indefettibile della necessaria giustificazione; l’adeguatezza delle sanzioni e la loro funzione deterrente; la impugnabilità del licenziamento di fronte a un giudice imparziale. Tutti e tre questi capisaldi sono messi fortemente in discussione dalla disciplina dei licenziamenti contenuta nel decreto 23/2015, per la ragione che, per i nuovi assunti, un licenziamento sostanzialmente ingiustificato porterà alla perdita del posto di lavoro, senza neppure un adeguato compenso in termini monetari, e potrà inoltre essere agevolmente sottratto al controllo di un giudice imparziale (così nel caso della conciliazione “spontaneamente” offerta dal datore di lavoro). Quando si mette un lavoratore di fronte a una somma (per di più modesta) di denaro in cambio della reintegrazione nel posto che gli è stato ingiustamente tolto, si viola il significato costituzionale del lavoro (articoli 1 e 4) e anche la dignità del lavoratore, perché il lavoro è parte essenziale dei suoi diritti ….
Il Jobs Act discrimina i lavoratori. L’articolo 3 della Costituzione italiana viene di fatto stracciato, così come viene stracciato l’articolo 2, lo stato ci sta privando dei diritti inviolabili: di fatto si impedisce ai lavoratori di avere una vita, di formare una famiglia, di progettare il proprio futuro. Stessa cosa per gli ammortizzatori sociali: il requisito di 13 settimane contributive negli ultimi 4 anni o di 18 giorni lavorativi nell’ultimo anno danno diritto a briciole (e la pensione ce la scordiamo). Col Jobs Act si vuole mettere le mani anche sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori. L’art. 4 non lascia spazio a dubbi poiché vengono utilizzate le parole di razionalizzazione e semplificazione per gli adempimenti a carico dei cittadini e delle imprese. Semplificare la sicurezza, rivedere il regime di sanzioni non ha mai portato nulla di buono, l’unico investimento da fare è sulla prevenzione. Siamo arrivati a 15 milioni di italiani che vivono in condizioni di povertà, decine e decine di italiani si sono tolti la vita perché non riescono a trovare un lavoro o perché lo hanno perso, tanti cervelli che fuggono perché qui non hanno nessuna possibilità. Il Jobs act finisce per affossare la dignità dei lavoratori. Il Jobs Act è incostituzionale!
Ma andiamo a capire chi è quella merda pulitina di Renzi…
Matteo Renzi è Figlio di Tiziano Renzi, che è stato consigliere comunale di Rignano sull’Arno tra il 1985 e il 1990 per la Democrazia Cristiana (centrodestra andreottiano nato nel 1948). Si laurea nel 1999 all’Università degli Studi di Firenze in Giurisprudenza con una tesi in Storia del Diritto dal titolo ‘Amministrazione e cultura politica: Giorgio La Pira’. Ha una formazione nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (soldatini del papa – crociati).
Ma chi era La Pira?
La Pira nel 1946 viene eletto all’Assemblea costituente ed è parte integrante del nucleo centrale del “dossettismo” (centrosinistra cattolico) e il suo ispiratore era Gabriele D’Annunzio.
D’Annunzio il 5/10/1920 aderì al fascio di combattimento e quando era al governo di Fiume usò mezzi repressivi per detenere il potere, gli stessi metodi che usarono poi i fascisti. L’uso dell’olio di ricino come strumento di tortura e punizione dei dissidenti è stato introdotto proprio dai legionari di D’Annunzio, poi fatto proprio e reso famoso dallo squadrismo fascista liberale. Dopo la marcia su Roma (28/10/1922), il PPI accettò, che alcuni suoi uomini entrassero, nell’ottobre del 1922, nel governo Mussolini: Vincenzo Tangorra ministro del Tesoro e Stefano Cavazzoni ministro del Lavoro e Previdenza Sociale. Nell’aprile del 1923, però, la collaborazione venne meno perché il 4º Congresso del partito, svoltosi a Torino, chiedendo il mantenimento del sistema elettorale proporzionale e l’inserimento del fascismo all’interno del quadro istituzionale, provocò le ire di Benito Mussolini. Il partito visse una crisi interna perché la destra del partito si allineò sulle posizioni filo-fasciste….
Ma quali sono stati i giochi sporchi fatti dalla Democrazia Cristiana per detenere il potere?
La ricostruzione del partito cattolico (destra e sinistra assieme, dopo l’amnistia di Togliatti) avvenne tra il 1942 e il 1943, attorno a ex dirigenti del Partito popolare (A. De Gasperi, G. Spataro, M. Scelba, P. Campilli ecc.) e a giovani cattolici (G. La Pira, G. Dossetti, A. Moro, A. Fanfani, G. Andreotti ecc.). La DC aderì al CLN e partecipò alla lotta di liberazione antifascista (partigiani bianchi traditori, perché firmarono dopo la liberazione il Patto Atlantico – Strategia della tensione – stragi di stato). Nel dicembre 1945 fu varato il primo gabinetto De Gasperi. La DC, la cui matrice cattolica si accompagnava a una visione della politica laica, si configurò subito come forza di governo e di centro, costruendo la propria base soprattutto tra le masse contadine, i ceti medi e la borghesia imprenditoriale, mentre sul terreno ideologico si pose come forza avversa alla minaccia comunista. Tendenzialmente il partito cattolico era fautore di una repubblica monarchica ma al Congresso del 1946, la DC ottenne la maggioranza relativa all’Assemblea costituente. Iniziò una fase di tensione fra USA e URSS che spinse De Gasperi a liquidare (1947) la formula di governo che aveva guidato i primi passi del dopoguerra, fondata sull’alleanza con socialisti e comunisti, e a inaugurare l’epoca del centrismo (1947-‘60). Questa scelta sortì il successo delle elezioni del 1948 che videro assegnata alla DC la maggioranza assoluta dei seggi. Nel 1963 Moro formò il primo governo organico di centrosinistra. Le elezioni del 1968 segnarono uno scacco per il centrosinistra. L’11° Congresso (1969) affiancò al segretario Piccoli il presidente Zaccagnini, alle presidenziali del 1971 i parlamentari della DC preferirono, al candidato ufficiale Fanfani, Giovanni Leone, eletto con l’appoggio della destra, per giungere infine alla liquidazione del centrosinistra e alla riedizione del centrismo (1972-‘73). Al 12° Congresso (1973), un accordo tra le correnti sancì la riedizione del centrosinistra e la segreteria Fanfani, che utilizzò la ricostituita unità interna nella perdente campagna referendaria per l’abrogazione della legge sul divorzio (1974). Con la segreteria Zaccagnini (1975) riprese vigore la linea di Moro, descritta come ‘strategia dell’attenzione’ verso il PCI, che uscì confermata dal 13° Congresso (1976). Nelle elezioni politiche anticipate del 1976 il 34,4% di preferenze avuto dal PCI (la DC ottenne il 38,8%) imponeva un’accelerazione del confronto fra i due maggiori partiti italiani. La soluzione concordata furono i 2 governi monocolore Andreotti (luglio 1976-marzo ‘79) detti di ‘solidarietà nazionale’: il primo con l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI, e il 2° col voto favorevole di PCI, PSI, PSDI, PRI e Democrazia nazionale. Con la crisi del 2° governo di solidarietà nazionale si chiuse il periodo dell’attenzione verso il PCI. In via di esaurimento il terrorismo, dopo la pubblicazione di documenti sulla loggia massonica P2 (1981) fu sollevata dall’opposizione, specie comunista, la ‘questione morale’, cioè la critica di gravi distorsioni dei meccanismi del potere interpretate come conseguenza del mancato ricambio della classe di governo. Alla fine degli anni ‘80 conobbe una crisi politica che si saldò a quella generale della prima repubblica. Fu quindi travolta da tangentopoli e infine (1994) si frantumò in una serie di formazioni minori (PPI, CCD, UDC, Democrazia cristiana ecc.).
Ma ritorniamo al governo massonico di Renzi
Nell’ottobre 2012 la Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta per verificare cosa c’è di vero nelle denunce sugli sperperi di Matteo Renzi all’epoca in cui era presidente della Provincia e aveva creato un carrozzone, la Florence Multimedia, che ha speso 9,2 milioni di euro dal 2006 al 2009 pagando fatture a un’impresa privata di Matteo Spanò, già manager della stessa Florence e amico di Renzi…
Il reddito di un operaio arriva al massimo a 15 mila euro all’anno se sei fortunato, ma andiamo a vedere le dichiarazioni dei redditi dei ministri del Governo Renzi… Nel 2014 i mass media pubblicano le entrate e le proprietà di tutta la squadra di Matteo Renzi. Il dato più evidente è che i ministri, compreso il premier, guadagnano ora la metà (anche se il gruzzolo è ancora tantissimo in confronto al reddito dell’operaio) del tetto imposto agli stipendi dei supermanager (240mila euro). Tutti i politici quando entrano a Palazzo Chigi si arricchiscono (alla faccia dei poveracci che grazie alla riforma del lavoro tirano la cinghia), come ad esempio Graziano Delrio e Federica Mogherini. Il braccio destro di Renzi da sindaco di Reggio Emilia ha percepito infatti 97.492 euro; come sottosegretario alla presidenza riceve invece 114.796,68 euro all’anno. Delrio dichiara inoltre di possedere tre fabbricati (di 90, 40 e 32 metri quadrati) a Bocenago (Trento), nonché un fabbricato di 130 metri quadrati e un box di 29 a Reggio Emilia, di cui è stato sindaco. Il tutto risulta in comproprietà al 50%, così come i due terreni rispettivamente di 2.000 e 4.000 metri quadrati ad Albinea, in provincia di Reggio Emilia, entrambi destinati a seminativo arboreo. Nel 2012 il reddito lordo percepito invece da Federica Mogherini era di 103.287. La titolare della Farnesina è proprietaria di un appartamento a Roma di 140 metri quadrati e di un posto auto, di un appartamento a Santa Marinella di 50 metri quadrati e della nuda proprietà di un appartamento a Parigi di 26 metri quadrati. Matteo Renzi da sindaco, nel 2012, ha guadagnato 145.272 euro. Il premier ha poi una casa in comproprietà con la moglie Agnese di 12,5 vani e un fabbricato di 57 metri quadrati a Pontassieve vicino Firenze. Non ha una propria auto (usufruisce delle ‘auto Blu’), ma la moglie Agnese possiede un Volkswagen Sharan. Il suo vice Angelino Alfano, proprietario di due fabbricati ad Agrigento e in comproprietà di un terreno agricolo e un fabbricato rurale a Sant’Angelo Muxaro (Ag), nel 2012 percepiva un reddito di 106.616 euro. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è proprietario di un appartamento e di un box a Roma, nel 2013 ha percepito circa 216.000 euro come vice segretario e capo economista dell’Ocse, un reddito non soggetto a tassazione italiana visto che era residente all’estero e dipendente di un’organizzazione internazionale. Da capo delle Coop Rosse Giuliano Poletti nel 2012 ha portato a casa (un fabbricato a Mordano con terreni di 10.000 metri quadri) 192.623 euro . L’imprenditrice Federica Guidi scende da 298.708 euro nel 2012 a 114.796 nel 2014. Il ministro per lo Sviluppo Economico è proprietaria di alcuni fabbricati a Castel Nuovo Rangone e Forte dei Marmi. Maria Carmela Lanzetta ministro per gli Affari Regionali, nel 2012 ha guadagnato 119.479 euro, grazie soprattutto a una farmacia, ma possiede un articolato patrimonio immobiliare che alzano il reddito: due case (categoria A2) ed una casa popolare (A4) a Roma; a Monasterace (Rc), dove era sindaco, possiede due case di tipo economico (A3). Si aggiunge la proprietà al 50%, sempre a Monasterace, di 4 case e un magazzino e percentuali tra il 3,8 e il 16,66 di altre tre case e 5 magazzini e box a Monasterace, Mammola (Rc) e Roma. Maria Elena Boschi dichiara il reddito 98.471 euro. Non risulta proprietaria di alcun immobile, ma di una Mercedes Classe B del 2011, e di alcune azioni. Marianna Madia il reddito del 2012 del ministro per la Pubblica Amministrazione è stato di 98.471 euro. Madia possiede un fabbricato e un box a Roma, a cui va aggiunta la nuda proprietà di tre altri fabbricati, sempre a Roma, due dei quali al 50%. Il reddito del 2012 del ciellino cattofacista Maurizio Lupi (esclusi i Rolex) è di 282.499 euro….
Naturalmente dopo la critica al Jobs Act non potevamo non mettere in discussione anche il mondo no profit del sociale: sulla Gazzetta ufficiale del 18/6/2016 “esce l’articolo sulla legge 106 che da la Delega al Governo (Renzi e Gentiloni) per la riforma del Terzo settore, sull’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”. Già da prima della legge 106, il mondo no profit ne ha approfittato della riforma del lavoro che ci imponeva la flessibilità del mercato Co.co.co. Job act e le sue modifiche all’art. 18 per ottenere personale declassato e sfruttato, in un contesto sociale dove manca sempre il personale. Ormai tutti hanno notato l’incoerenza e l’ipocrisia delle imprese sociali, cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, le quali non praticano affatto la solidarietà (art. 1), ma sono animate soprattutto dalla ricerca del profitto a tutti i costi (sulle disgrazie degli altri), praticando lo sfruttamento del personale lavorativo e fornendo quasi sempre un servizio carente (alla spera in Dio…) per gli utenti bisognosi. L’art. 6 della legge in riferimento alle imprese sociali, lascia intendere che dietro la parola “utili” altro non si intenda che il classico profitto (coi soldi pubblici). La legge si preoccupa giustamente che ci sia trasparenza su come vengono utilizzati i fondi da parte di chi li riceve (massomafia), ma allora perché il no profit non va a chiedere i fondi alla banca mondiale del Vaticano (IOR), visto che è nata per risolvere il problema del disagio e della povertà delle persone in stato di bisogno? Sarebbe coerente col diritto di uguaglianza e solidarietà che la chiesa predica bene (ma razzola male…).
Travaglio vs Renzi: “Chi ha copiato il Jobs Act?”
Io penso che sia indegno di un uomo fare
ai propri simili tutto il male che il capitalista
gli ordina di fare, credendo di potersi giustificare
con questa sciocca scusa: io non sono che uno
strumento del capitalismo.
M. Nettlau
Cultura dal basso contro i poteri forti
Rsp (individualità Anarchiche)