In questi giorni è morto all’età di 88 anni il magistrato Agostino Cordova (foto sopra). Originario di Reggio Calabria, negli ultimi anni viveva tra la sua città natale e Napoli. Cordova, insieme al magistrato Falcone, coniò la parola massomafia, specificando che il problema principale non era la mafia analfabeta ma la massoneria, il potere dell’alta borghesia, che aveva la cultura e manovrava la mafia. La massomafia è ancora oggi, il connubio tra mafia e massoneria – politica e massoneria (alti gradi della media e alta borghesia), e colletti bianchi (ceti sociali formati da impiegati, funzionari statali, negozianti, imprenditori e alti gradi delle forze del disordine ecc.). Cordova ha lasciato un segno indelebile nella lotta contro la criminalità organizzata, distinguendosi per il suo impegno contro la massoneria, la ‘ndrangheta e i legami oscuri tra mafia, politica e massoneria.
Entrato in magistratura nel 1963, Cordova iniziò la sua carriera come pretore a Reggio Calabria. Nel corso degli anni ’70, passò al Tribunale e poi all’Ufficio istruzione, dove guidò alcune delle più importanti inchieste contro le cosche della ‘ndrangheta, tra cui il celebre processo contro il gruppo dei 60, guidato da Paolo De Stefano, figura di spicco della criminalità calabrese. La sua carriera raggiunse un punto cruciale quando, nel 1987, fu nominato capo della Procura della Rep. di Palmi. Qui, Cordova condusse indagini che fecero tremare il sistema di potere dell’epoca, mettendo in luce i legami perversi tra mafia e massoneria. Una delle sue inchieste più rilevanti fu quella che portò al sequestro degli elenchi dei massoni del Grande Oriente d’Italia, rivelando le fitte trame che univano il mondo della criminalità organizzata a quello della politica e della massoneria.
Il suo lavoro, però, non si fermò alla Calabria. Nel 1993, Cordova fu nominato procuratore capo a Napoli. Anche qui, il magistrato lasciò il segno, ponendo le basi per un rinnovato approccio alle indagini sui fatti di malaffare politico-amministrativo e sulla camorra. Il suo metodo investigativo, basato su un rigore inflessibile e su una visione lungimirante della giustizia, ha contribuito a svelare alcuni dei più complessi intrecci criminali del Bel Paese. Ma Cordova non fu un protagonista del ’92 per l’indagine sul Grembiulini. Fu al centro, invece, di uno scontro che mobilitò l’intera magistratura, la politica e le istituzioni italiane, giornalisti e uomini di cultura: la lotta che venne combattuta per impedire a Giovanni Falcone di diventare procuratore nazionale antimafia, per fargli pagare opinioni e gesti che Falcone aveva consumato (e gli costeranno la vita) e che la sua corporazione osteggiò con durezza e determinazione. Nel 1978 impresse una vera svolta investigativa: «Quale Giudice istruttore a Reggio Calabria, “promossi” l’allora non esistente reato di associazione mafiosa poi introdotto col successivo articolo 416 bis del codice penale. Cioè integrando l’associazione per delinquere comune di cui all’art. 416 con le caratteristiche mafiose». Il primo maxi processo contro la ‘ndrangheta calabrese, «Aveva riunito tutti quelli riguardanti inquisiti cui veniva contestato di appartenere alla ‘ndrangheta operante nel circondario, sotto il profilo del comune reato di associazione per delinquere di cui all’art 416 del codice penale, ma connotandolo con le tipiche modalità mafiose. Tale inquadramento fu poi mutuato dal legislatore nel formulare, 4 anni dopo, il reato associativo».
«Il 30/1/1989 un altro Procuratore Generale di Catanzaro dava atto che nella mia attività a Palmi avevo “dato un impulso veramente eccezionale all’Ufficio nella lotta alla criminalità organizzata”».
Nel 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, scoprendo relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova s’imbattè nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati ad associazioni occulte. «Ne scaturirono 135 imputati di associazione mafiosa, traffico di armi e stupefacenti, voto di scambio, rapporti mafia-politica, sotto il profilo della mera violazione delle norme elettorali». Un duro colpo alla ‘ndrangheta imprenditrice: «Disposi 180 perquisizioni nei confronti di altrettante persone indicate come affiliate o collegate alla ‘ndrangheta (ovviamente, non a candidati): informai anche la Procura di Locri che si associò disponendone contestualmente altre 120».
Proprio per effetto di quelle indagini, e nonostante le immediate reazioni di rito, dopo pochi mesi, col decreto legge 306/1992 convertito in legge 356/1992, venne introdotto l’art. 416 ter del codice penale, concernente lo scambio elettorale politico-mafioso, e venne integrato lo stesso art. 416 bis, nel senso che costituiva attività mafiosa anche il procacciamento di voti». «Il reato fu limitato alla promessa di voti contro erogazione di somme di denaro e non contro scambio di contributi, concessioni, appalti, come prevedeva l’originario disegno di legge: ebbene, fin da allora rilevai che era sufficiente riferirsi a qualsiasi “altra utilità”, specificazione, quest’ultima, aggiunta solo nel 2014, cioè dopo ben 22 anni», afferma il magistrato. La massoneria, intorno agli anni 1977-‘79, aveva chiesto alla commissione di Cosa nostra di consentire l’affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose. Nonostante il fatto che non tutti i membri della commissione avessero accolto favorevolmente l’offerta, alcuni di essi unitamente ad altri “uomini d’onore” di rango ebbero convenienza ad optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra. In secondo luogo era emerso che, nell’ambito di alcuni episodi che avevano segnato la cd. “strategia della tensione” [Piano militare chiamato Patto Atlantico anticomunista Nato, firmato a Washington il 4 aprile 1949] in Italia, tramite i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, alcuni esponenti della massoneria aveva chiesto la collaborazione della mafia. Infine, si rilevava che all’interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l’adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli “ uomini d’onore”. Ricordiamoci che rapporti fra Cosa nostra e massoneria erano già emersi anche nell’ambito dei lavori delle Commissioni parlamentari d’inchiesta, sia sul caso Sindona, sia sulla loggia massonica P2, che avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Dal termine dei lavori della citata Commissione antimafia della IX Legislatura in poi, non sono mancate le indagini e i procedimenti penali che, direttamente o incidentalmente, hanno verso sull’interesse coltivato dalla mafia nei confronti della massoneria. A proposito, con l’obiettivo di acquisire contezza di tali accertamenti, questa Commissione ha richiesto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo di trasmettere una raccolta di atti sull’argomento, anche antecedenti ai lavori della citata Commissione antimafia della XI legislatura. La ‘ndrangheta, seppur in modo collaterale, già negli anni ‘60 aveva rapporti con la massoneria nella misura in cui questa faceva da tramite con le istituzioni. Il fine era instaurare rapporti di cointeressenza con la classe politica, attraverso la clientela saldata dal voto di scambio.
Dagli anni ’70 i rapporti si stringono nella misura in cui, la massoneria faceva da tramite con le istituzioni. Incomincia ad avere rapporti stretti dopo la prima guerra di ‘ndrangheta, dove alcuni capibastone diventano massoni per poter comunicare senza intermediari e incrementare così i guadagni con personaggi della massoneria appartenenti anche al mondo bancario, della magistratura, imprenditoria e delle forze dell’ordine. Questo nuovo modo di agire della mafia calabrese sembra sia stato voluto dal vecchio capobastone Don Mommo Piromalli e dalla nuova promessa Paolo De Stefano (foto sopra). Chi era contrario a ciò, come Antonio Macrì e Domenico Tripodo, riteneva che la ‘ndrangheta non dovesse affiliarsi ad altre associazioni e quindi rispettare le tradizionali regole del codice mafioso. Questi furono eliminati, ma comunque per ovviare al problema morale, Piromalli fonda la Santa, una sorta di ultimo grado gerarchico dell’organizzazione alla quale una volta avuto accesso si ha il potere anche di entrare in contatto e affiliarsi ad altre organizzazioni, come la massoneria. I santisti possono essere massimo 33 ma successivamente il numero fu incrementato. Nel 1992 la cosiddetta “inchiesta Cordova” (proprio dal nome del Procuratore capo di Palmi Agostino Cordova che la condusse) fece emergere rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata. Cordova dispose perquisizioni nelle sedi del Grande Oriente d’Italia, che determinarono le dimissioni del Gran maestro Giuliano Di Bernardo (foto sotto).
Il 4 gennaio 2016 si conclude l’operazione Kyterion 2 diretta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che porta all’arresto di 16 presunti affiliati ai Grande Aracri di Cutro, dalle indagini si evince presunti tentativi di collegarsi ad esponenti del Vaticano e della Corte di cassazione, nonché l’intrusione in ordini massonici e cavalierati da parte del capo-locale Nicolino Grande Aracri. Il 31/1/2017 in udienza presso la commissione antimafia, l’ex maestro del GOI Giuliano Di Bernardo racconta dei legami tra ‘ndrangheta, Cosa Nostra e massoneria, e che il numero 1 della massoneria calabrese gli riferì che 28 logge calabresi su 32 erano infiltrate dalla ‘ndrangheta. Il 19/12/2019 si conclude l’operazione Rinascita-Scott iniziata nel 2016 che porta all’arresto di 334 persone in particolare nella Provincia di Vibo Valentia tra cui i capi e affiliati di tutte le principali locali di ‘ndrangheta vibonese e alleate dei Mancuso, oltre ai Mancuso stessi. Tra gli arrestati ci sono anche esponenti politici quali Giancarlo Pittelli (ex di Forza Italia), Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo e presidente dell’ANCI in Calabria, legali tra cui colui che difende Giuseppe Zinnà indagato per riciclaggio dopo essere stato trovato al confine svizzero-italiano il 4 dicembre con un assegno da 100 milioni di euro, Filippo Nesci, dirigente dell’urbanistica di Vibo Valentia, Danilo Tripodi impiegato al tribunale di Vibo Valentia, l’imprenditore edile Prestia, il ristoratore Ferrante, ed esponenti della massoneria. Il 21/5/2024 : «Con la massoneria deviata si aggiustano processi e si fanno soldi»: i racconti dei pentiti nella sentenza Rinascita Scott.
Ma analizziamo meglio la situazione: nel ‘ 92 bisogna eleggere il Procuratore nazionale antimafia istituito dalla legge che ha creato la Direzione Nazionale Antimafia (Dna). La gara, per un bel tratto, è proprio tra Cordova e Falcone (a destra nella foto), coi rispettivi sostenitori anche loro impegnati a difesa dei propri interessi. Falcone ha lasciato Palermo dopo un periodo travagliato cominciato con la bocciatura del Csm che gli preferisce Meli quando Caponnetto va in pensione da Consigliere istruttore. Sono in troppi, nel Palazzo di Giustizia, a remargli contro: non tanto per favorire Cosa nostra quanto per scontri furibondi di carriere e potere che vanno oltre il Palazzo. Falcone fa la mossa del cavallo: accetta la proposta di Claudio Martelli (a sinistra nella foto), ministro della giustizia in conto Psi, che lo vuole a Roma. Il trasferimento viene vissuto, dagli ambienti politici, culturali e giudiziari palermitani (gli stessi con cui avrebbe polemizzato Sciascia in un articolo che venne titolato “II professionisti dell’antimafia”), come un vero e proprio tradimento, una rinuncia di fatto allo scontro contro i clan mafiosi. In Calabria Cordova, pochi giorni prima delle elezioni del ’92, fa perquisire le abitazioni di circa 300 boss della ‘ndrangheta per sequestrare il materiale elettorale che possiedono e scoprire quali sono i candidati delle cosche. Lo scontro s’indurisce. Da un lato, i socialisti; dall’altro, gli ex comunisti del Pds. Ma torniamo alla Dna per la cui direzione si fronteggiano Falcone e Cordova. L’emergenza mafiosa e gli omicidi eccellenti hanno fatto diventare urgente la sua istituzione. Ma su come concepire una struttura che si occupi solo del crimine organizzato ci sono opinioni diverse.
Falcone che ha fatto esperienze preziose nella lotta al crimine americano, punta a un centro unificato capace di affrontare con un coordinamento reale centralizzato lo scontro contro le cosche. Vuole che «i vari uffici di Pubblico ministero procedano concordemente in maniera omogenea, senza farsi le “scarpe” reciprocamente, senza personalismi», dice a Radio Praga. I magistrati gli saltano addosso, a partire da Magistratura democratica. In alcuni c’è la preoccupazione che una struttura del genere possa indebolire l’autonomia del Pm sottraendogli le indagini ogni volta che i poteri forti intervengono. In altri, gioca una preoccupazione più concreta: la possibile sottrazione delle indagini che vanno sui giornali e concedono visibilità e carriera. Falcone sembra molto più avanti di tutti i suoi colleghi. E’ già arrivato alla «consapevolezza che la mafia costituiva un fenomeno pericoloso per la tenuta stessa dell’ordinamento democratico». Vuole uno strumento per una sfida risolutiva contro la mafia. Ma la Dna che verrà fuori alla fine sarà una cosa di qualità diversa: nei fatti, un rispettabile ufficio studi che annualmente invia una relazione al Parlamento. Insomma, anche questa volta Falcone viene isolato. L’uomo com’è noto, non è amato dai suoi colleghi e ogni volta che sarà costretto a misurarsi con loro o col Csm verrà duramente sconfitto. Cordova e Falcone sono i due candidati al posto di Procuratore della Dna. Entrambi, per motivi diversi, nei lunghi mesi che precedono il tragico 23 maggio del ’ 92, sono quotidianamente sulle prime pagine della grande stampa. Ma intanto è accaduto un fatto nuovo: tutti (o quasi) gli ex amici di Falcone che scrivono sui giornali e le testate che lo hanno sostenuto, quelli che lo hanno a lungo osannato e fatto personaggio, gli sono ostili. Cresce la schiera di quelli che nascondono un’avversione durissima coprendosi dietro l’inopportunità che un magistrato che lavora col ministro (Martelli, per giunta del Psi di Craxi), occupi quella poltrona; per non dire dell’intero blocco dell’opposizione politica e culturale al Psi. Cordova, intanto continua a macinare le sue due grandi indagini, quella che vede al centro un grande pezzo del Psi calabrese, e l’altra sulla massoneria. Nel frattempo il vecchio fronte che lo aveva a lungo sorretto isola sempre più il suo rivale Falcone.
Il 26 febbraio la Commissione referente per gli incarichi direttivi del Csm boccia Falcone e promuove Cordova come candidato a procuratore antimafia. Martelli perde tempo, blocca la pratica. La partita la chiude Cosa nostra il 23/5/1992 facendo saltare in aria Falcone, la moglie Francesca e tre uomini della scorta. Cordova, avversario di Falcone, non può più diventare Procuratore. Verrà nominato Bruno Siclari (foto sopra), prestigioso magistrato a Milano (originario di Reggio). Cordova da Palmi farà il salto a procuratore di Napoli, una delle poltrone più ambite nella magistratura.
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Anarchia, al giorno d’oggi, è l’attacco, è la guerra
ad ogni autorità, ad ogni potere, ad ogni Stato.
Nella società futura, l’anarchia sarà la difesa,
l’impedimento opposto
al ristabilimento di qualsiasi autorità,
di qualsiasi potere, di qualsiasi Stato.
Carlo Cafiero
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Solidarietà a tutti i compagni/e ingiustamente arrestati.
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Cultura dal basso contro i poteri forti
Rsp (individualità Anarchiche)