Durante la guerra fredda, eserciti segreti sono stati attivi in tutta l’Europa occidentale. Gladio faceva parte di questa rete, che avrebbe dovuto contrastare un’invasione del Patto di Varsavia. Certamente Gladio ha fatto parte a pieno titolo della guerra fredda che si è combattuta in Italia, ma bisogna evitare l’errore di individuare in Gladio la chiave interpretativa di tutte le vicende della strategia della tensione e delle stragi in Italia. Tutto cominciò con una trasmissione del Tg1 del luglio 1990. In 4 puntate, trasmesse il 28 e il 30 giugno e il 1° e il 2 luglio 1990, il giornalista Ennio Remondino cercò di ricostruire i retroscena dell’omicidio del primo ministro svedese Sven Olof Joachim Palme (ucciso misteriosamente la sera del 28 febbraio 1986 a Stoccolma). Durante l’inchiesta furono intervistati due testimoni che si qualificarono come ex agenti della Cia disposti a fare rivelazioni sconcertanti sui rapporti degli USA con la destra italiana e la P2. I due ex agenti segreti statunitensi, Richard Brenneke (foto sotto) e Ibrahim Razin (agente “Y”, alias Oswald Le Winter, ex generale di brigata dell’esercito americano e supervisore della Gladio europea), parlarono di somme di denaro che la Cia destinò alla P2 per destabilizzare l’Italia. Brenneke parlò anche di qualcosa di molto simile a Gladio (nuclei clandestini dello stato).
L’inchiesta scatenò numerose polemiche, fino a una delle prime ‘picconate’ dell’allora presidente della rep. Francesco Cossiga. A causa di queste polemiche il direttore del Tg1 Nuccio Fava fu costretto alle dimissioni. Contemporaneamente, un giudice di Venezia, Felice Casson, che investigava sui depistaggi operati da carabinieri e servizi segreti nell’inchiesta sulla cosiddetta “strage di Peteano” (attentato terroristico in cui persero la vita 3 cc), stava approdando a risultati simili alle dichiarazioni di Richard Brenneke. Bertoli fu arrestato subito dopo per la strage della questura (foto sotto).
Già nel 1984, l’esistenza di qualcosa simile a Gladio fu sospettata dalle rivelazioni rese dal membro di Avanguardia Nazionale Vincenzo Vinciguerra, durante il processo per la strage di Peteano: «Esiste in Italia una forza segreta, parallela alle forze armate, formata da civili e militari, che ha la capacità di organizzare una resistenza all’esercito russo sul suolo italiano. Si tratta di una organizzazione occulta, una super-organizzazione segreta con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi e uomini addestrati a usarli».
Giulio Andreotti (foto sotto), chiamato il 1° agosto a rispondere alla Camera in qualità di presidente del consiglio dei ministri in merito alle rivelazioni del Tg1, minimizzò le dichiarazioni dell’agente Brenneke perché, come riferì al parlamento, «la Cia ha smentito recisamente l’appartenenza del Brenneke al servizio statunitense», aggiungendo: «Ritengo del tutto privo di senso comune immaginare che il Congresso degli Stati Uniti d’America abbia potuto autorizzare o comunque tacitamente avallare un’operazione di destabilizzazione condotta contro un paese amico ed alleato come l’Italia». Il 2 agosto, però, Giulio Andreotti, deponendo davanti alla Commissione parlamentare stragi, per la prima volta ammise l’esistenza di una struttura paramilitare segreta del tipo stay behind (che vuol dire “stare dietro le linee”, operare in maniera occulta), cui sarebbero stati affidati compiti di vigilanza anti-invasione. Il presidente dell’esecutivo si impegnò a consegnare un fascicolo con maggiori dettagli su Gladio.
Effettivamente un fascicolo fu consegnato alla Commissione il 18 ottobre: era composto di 12 pagine. Il giorno dopo, tuttavia, sparì per ricomparire 4 giorni più tardi debitamente edulcorato. Tra il 1° documento e il 2° mancano interi periodi, gli omissis sono parecchi e molte vicende sono oscurate. Ad esempio: nel primo documento si parla del controllo da parte dei servizi segreti sull’intero gruppo Gladio, nel secondo non si fa accenno ad alcun controllo; nella prima versione si sostiene che la pianificazione geografica e operativa era concordata col servizio informazioni americano, nella seconda versione la riga salta interamente; nel documento “corretto” scompare ogni accenno agli stanziamenti previsti per l’organizzazione, come spariscono tutte le notizie su modalità operative del gruppo: addestramento, materiali in dotazione e, particolare interessante, sui depositi di armi ed esplosivo che nella versione del giorno 18 si dicevano smantellati e ricostituiti altrove.
Nel documento del 18 ottobre 1990, che il presidente del consiglio Andreotti presentò alla Commissione parlamentare stragi, si fa risalire al 26/11/1956 la nascita della rete clandestina Gladio. In realtà, in quella data, il Sifar e la Cia procedettero a un “riadattamento” (restatement) degli accordi fra il Servizio informazioni italiano e il Servizio informazioni statunitense relativi all’organizzazione e all’attività della rete clandestina post-occupazione, le cosiddette reti Stay Behind.
Questi accordi risalivano a molto prima, al 1951-‘52, anche se (come vedremo), una struttura anti-invasione esisteva sin dal 1949 seppure con un nome diverso. L’8 ottobre 1951, infatti, il generale Umberto Broccoli, direttore del “Servizio italiano” (e non il gen. Musco, come scritto da Andreotti), inviò al gen. Efisio Marras (foto sotto), capo di stato maggiore della Difesa, un promemoria dal titolo: “Organizzazione informativa operativa nel territorio nazionale suscettibile di occupazione nemica“.
In Italia esisteva già una struttura clandestina statunitense anti-invasione, ma il direttore del Sifar aveva preso in considerazione la necessità di costituire a sua volta un nuovo organismo di questo genere e di cercare di arrivare a un coordinamento con quello americano. Questa struttura avrebbe dovuto essere capace, in caso di invasione sovietica o jugoslava, di fornire informazioni, sabotare gli impianti dell’occupante e fornire assistenza ai militari rimasti dietro le linee.
Gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia avevano già organizzato strutture simili, e non solo nel loro territorio. Successivamente, queste strutture furono fatte nascere in tutti i Paesi dell’Europa Occidentale, comprese nazioni neutrali come Svezia e Svizzera.
Tutte le strutture, inclusa poi Gladio, erano operanti nell’ambito Nato e coordinate dal Clandestine Planning Committee, l’organo multinazionale controllato dallo Shape (Supreme Headquarters Allied Powers Europe), con sede a Bruxelles in Belgio. Quest’ultima struttura era un organismo di coordinamento tra le diverse nazioni dell’Europa Occidentale già operante dal 1948, anche se col nome di Western Union Clandestine Committee (Commissione clandestina dell’Unione occidentale).
Nel 1990, in un articolo del 13 novembre, il giornalista dell’International Herald Tribune Joseph Fitchett, elaborò il termine “Resistenza della Nato”, per spiegare le funzioni di queste reti anticomuniste, finanziate in parte dalla Cia.
Queste “armate segrete” ebbero diversi nomi, a seconda del Paese: in Svizzera erano state denominate in codice “P26”, in Austria “OWSGV”, in Belgio “SDRA8”, in Danimarca “Absalon”, in Germania “TD BJD”, nel Lussemburgo semplicemente “Stay-Behind”, nei Paesi Bassi “I&O;”, in Norvegia “ROC”, in Grecia “LOK”, in Turchia “Contro-Guerriglia”, in Portogallo “Aginter”. I nomi in codice degli eserciti segreti in Francia, in Finlandia, in Spagna e in Svezia rimangono tuttavia sconosciuti.
Gladio ha ricalcato, in forma più aggiornata, l’organizzazione adottata dalle forze di resistenza partigiana bianca in Europa durante l’occupazione nazista. E’ stata dunque una rete clandestina, inserita nell’ambito Nato, da impiegare nell’eventualità di un’occupazione anticomunista nemica del territorio.
L’origine di Gladio è fatta risalire all’organizzazione O, la quale era originata da una formazione partigiana bianca, la Osoppo (foto sotto). Nel primo dopoguerra, appena ebbe inizio la Guerra fredda e divenne concreto il pericolo di un attacco degli eserciti del Patto di Varsavia, questa organizzazione fu inserita legalmente nelle Forze armate italiane. Fu dotata di vertici militari e fatta confluire nelle strutture segrete della Nato.
La Stay Behind italiana era costituita da 5 unità di pronto impiego in regioni di particolare interesse strategico, denominate: “Stella Alpina” nel Friuli, “Stella Marina” nella zona di Trieste, “Rododendro” nel Trentino Alto Adige, “Azalea” nel Veneto e “Ginestra” nella zona dei laghi lombardi.
La struttura, alle dipendenze dell’Ufficio R del Sifar, era articolata in 40 nuclei, dei quali 6 informativi, 10 di sabotaggio, 6 di propaganda, 6 di evasione e fuga, 12 di guerriglia. Inoltre erano state costituite 5 unità di guerriglia di pronto impiego in regioni di particolare interesse.
L’organizzazione su più livelli rese l’intera struttura più protetta nel caso un’unità fosse stata scoperta. Esistevano, infatti, almeno 3 livelli: uno formato da elementi destinati a “durare” nel territorio eventualmente occupato, e quindi non facilmente individuabili in quanto insospettabili; un altro formato da unità di guerriglia di pronto impiego da attivare alle spalle del nemico come vere e proprie bande partigiane; un altro livello era direttivo; quest’ultimo, il più protetto di tutti, è rimasto occulto anche agli occhi degli stessi “gladiatori”, ed era composto da individui i cui nomi dovevano rimanere ignoti (e che tutt’ora in effetti lo sono).
Le indagini su Gladio si sono concentrate sui livelli più bassi dell’organizzazione, compresi i nomi dei 622 gladiatori, tantissimi dei quali hanno comunque fatto parte di Gladio in buona fede, perché ritenevano che avrebbero dovuto operare solo in funzione antinvasione. Non si è potuto scoprire di più, perché molte tracce compromettenti sono state cancellate, anche col fuoco, come si evince dalla sentenza e dalla perizie del processo Gladio. Nella perizia effettuata da Giuseppe De Lutiis, per conto del Tribunale di Bologna, si legge infatti: « [.] È inoltre da rilevare che nei registri di protocollo si riscontrano una abnorme mole di documenti distrutti col fuoco nei giorni intercorrenti tra il 29 luglio e l’8 agosto 1990, e cioè in concomitanza con l’accesso del giudice Casson al Servizio per la consultazione di documenti (27/7/1990) e con le dichiarazioni del presidente del Consiglio Andreotti dinanzi al Parlamento (il 2 agosto alla Camera, e il 3 alla Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi)» (Perizia nei procedimenti penali del Tribunale di Bologna n° 219/A/86. Rggi e n° 1329/A/84 Rggi, consegnata il 1° luglio 1994, pag. 3).
A seguito degli accordi Italia-Usa, nel corso del 1959 la Cia provvide anche a inviare al generale De Lorenzo (foto sopra) materiali di carattere operativo da interrare nelle zone sensibili (i cosiddetti Depositi Nasco). A partire dal 1963 ebbe inizio la posa dei contenitori. In totale, secondo le indagini portate avanti dagli inquirenti, i depositi Nasco sono stati 139. Fra i materiali in questione erano comprese armi portatili, munizioni, esplosivi, bombe a mano, coltelli, mortai da 60 mm, cannoncini da 57 mm, fucili di precisione, radiotrasmittenti e così via. Parte del materiale Nasco risulterà essere identico a quello utilizzato per alcune stragi compiute in Italia. Ad esempio, l’esplosivo al plastico C4 ritrovato nel 1972 ad Aurisina, vicino a Trieste, sembra essere identico a quello utilizzato a Peteano per far saltare la Fiat 500 che uccise 3 cc. Gli americani dotarono la struttura anche di un aereo Dakota C47, nome in codice “Argo-16”, fornito per le operazioni di trasporto. Questo aereo comparirà in alcune vicende oscure della I Repubblica. La maggiore concentrazione di questi depositi si è avuta in gran parte nell’Italia del Nord, nelle regioni del Nordest, tuttavia anche al Sud sono state segnalate alcune presenze: ad esempio nella zona di Napoli sono esistiti uno o due depositi per sabotatori, come anche in quella di Taranto.
Il materiale destinato alla rete clandestina non era però solo quello interrato nei Nasco in contenitori sigillati: l’armamento e il materiale per le “Unità di pronto impiego” era anche in superficie, presso alcune caserme di cc e nella base di Capo Marrargiu, in Sardegna.
Un punto ambiguo collegato ai materiali Nasco è quello relativo alla proporzione tra la sua quantità e il numero dei gladiatori. Infatti, ufficialmente non fu mai superata una media di 250 effettivi: è abbastanza illogico credere che il finanziamento e l’armamento destinati alla Gladio siano serviti solo per rendere operativa una forza clandestina di poco più di 200 uomini.
A seguito dei mutamenti geopolitici in Europa, a partire dal 1974 fu rivista tutta la programmazione della rete. Sulla base di un memorandum intitolato “Direttive di base nella guerra non ortodossa nei territori occupati dal nemico”, furono cancellate le “Unità di pronto impiego”. Queste furono sostituite: dalle “Unità di guerriglia”, impiantate in tutto il territorio nazionale (e quindi non più limitate alla sola fascia alpina nordorientale), con un organico di 105 unità ciascuna; dalle “Reti di Azione Clandestina”, con un organico di 25 unità ciascuna; dai “Nuclei”, da impiantarsi nelle zone dove presumibilmente sarebbe stata necessaria attività di informazione o di esfiltrazione, con un organico di 5 unità ciascuna. La forza complessiva programmata a partire dal 1974 era dunque di 2.874 unità.
Centro e quartier generale dell’esercito clandestino di Gladio, fu la base militare sarda di Capo Marrargiu, che divenne il Centro Addestramento Guastatori (Gag). La costruzione della “base” iniziò attorno al 1954. Furono innanzitutto acquisiti i permessi necessari, poi si procedette alla costituzione di una società a responsabilità limitata, la “Torre Marina”, costituita pubblicamente presso il notaio De Martino, che ebbe come soci il gen. Musco, allora direttore dei Servizi, il colonnello Santini, capo del Sios-Aeronautica, e il col. Fettarappa, dirigente dell’Ufficio R del Sifar. Per consentire di derogare alle norme di legge, che vietavano agli ufficiali di possedere quote azionarie e di costituire società, fu necessaria un’autorizzazione speciale del ministro della difesa Paolo Emilio Taviani.
Per la realizzazione del Centro, la Cia destinò 300 milioni di lire. Il col. Renzo Rocca ebbe il compito di sovrintendere alla costruzione della nuova base stay behind italiana. Il Centro fu dotato, oltre delle strutture per l’ospitalità, anche di bunker sotterranei, apparati di radiotrasmissione a lunga distanza, poligoni di tiro, zone per i corsi sull’uso degli esplosivi, aule per le lezioni di carattere ideologico, attrezzature subacquee per l’addestramento di uomini-rana, un piccolo porto, due piste d’atterraggio per aeroplani e una per gli elicotteri.
Il Centro di Capo Marrargiu doveva costituire anche la base operativa “ultima” della rete. Nel caso anche la Sardegna fosse stata occupata dal nemico, il Comando si sarebbe trasferito in Inghilterra.
All’interno della scuola di Capo Marrargiu operavano i cosiddetti “interni”, per lo più militari effettivi della 7ª Divisione dei Servizi militari, incaricati di formare e addestrare gli “esterni” (i gladiatori). La base sarda servì anche agli specialisti del Cag: infatti al suo interno si addestravano anche molti altri reparti speciali delle forze armate italiane e alleate.
Presso la scuola sarda si tennero corsi di preparazione alle tecniche della “guerra non ortodossa”, su temi quali sabotaggio, guerriglia, infiltrazione, esfiltrazione e occultamento e riesumazione di depositi Nasco.
In pratica si trattava di imparare tecniche di sabotaggio, di guerra a bassa intensità, di favorire l’introduzione clandestina di gruppi di reparti speciali alleati sul territorio occupato, di favorire l’uscita senza rischi dal territorio occupato di persone di rilevanza, come politici, scienziati, spie, oltre naturalmente agli elementi dei gruppi entrati clandestinamente.
La domanda da porsi ora è: a quali azioni ha preso parte Gladio? Ufficialmente a nessuna, la struttura non è mai stata attivata, almeno questo è stato rilevato dai pochi documenti superstiti ritrovati dalla magistratura. Il problema però è che la presenza di Gladio, o almeno di alcuni personaggi e alcune “dotazioni” della struttura, compaiono nelle pagine più buie della storia della rep. Italiana. Anche alcune dichiarazioni di ex appartenenti, ritenuti però non affidabili dalla magistratura, hanno lasciato intendere che dietro a Gladio ci fosse altro.
Ad esempio, Vincenzo Vinciguerra che, sempre nel suo interrogatorio del 1984, confessò: «questa super-organizzazione, dato che un’invasione sovietica non sarebbe potuta realisticamente avvenire, si era assunta il compito, per conto della Nato, di prevenire uno spostamento a sinistra degli equilibri politici del Paese. Questo fecero con l’assistenza dei servizi segreti e di forze politiche e militari». I documenti ritrovati dalla magistratura, anche se incompleti, non attestano questo, tuttavia sappiamo che i servizi segreti, che controllavano le reti stay behind in Italia, contattarono e protessero giovani neofascisti che furono poi coinvolti in una serie di operazioni terroristiche, di cui furono falsamente accusati anarchici e comunisti per screditare la sinistra.
Enrico Mattei (foto sotto), presidente dell’Eni, morì nel 1962 nell’incidente del bimotore che lo portava a Milano.
Ad ipotizzare apertamente una relazione tra Gladio e il caso Mattei sono stati nel 1995 i giudici Benedetto Roberti e Sergio Dini, della Procura militare di Padova, e Felice Casson, sostituto procuratore a Venezia. Due gli elementi di fondo che hanno indotto i giudici a ipotizzare una connessione tra Gladio e il caso Mattei. Il primo riguarda una delle guardie del corpo del presidente dell’Eni, Giulio Paver, che è risultato iscritto a Gladio. Dini e Roberti hanno poi accertato, dalla documentazione sequestrata presso la VII divisione del Sismi, dove sono custoditi gli archivi segreti di Gladio, che all’organizzazione laziale di Gladio appartenevano anche Lucio e Camillo Grillo, cognome non nuovo (a questo nucleo territoriale di Gladio faceva parte anche Armando Degni, che sarà poi inquisito per il tentato Golpe Borghese). Infatti, un misterioso “capitano Grillo”, presunto ufficiale dei cc, ispezionò con altri 2 “colleghi” l’aereo di Mattei prima del decollo da Catania. Il pilota, altra stranezza, in quel momento era assente. Pochi mesi dopo la morte di Mattei, Giulio Paver, lasciò il suo incarico all’Eni. Probabilmente perché il suo compito era terminato. Le attività del presidente dell’Eni costituivano un problema per gli Usa e qualche gladiatore potrebbe così essere stato incaricato di “rimuovere il problema”, magari con la complicità della mafia.
Gladio entra indirettamente anche nella vicenda del cosiddetto “Piano Solo”. Questo fu un piano predisposto dal generale massone De Lorenzo, capo del Sifar, che elaborò un progetto di golpe da attuarsi nel caso in cui il governo di centro sinistra (presieduto da Aldo Moro) non ridimensionasse le sue istanze riformiste. Il Piano Solo prevedeva, oltre l’occupazione di obiettivi strategici nelle principali città italiane, anche l’arresto di oltre 700 dirigenti comunisti e socialisti, sindacalisti, intellettuali di sinistra ed esponenti della sinistra Dc da deportare poi in Sardegna, proprio nella base di Capo Marrargiu. Sulla vicenda il governo pose il segreto di stato. Altra ‘stranezza’ è legata alla morte del commissario Luigi Calabresi. La presunta morte dell’estremista di destra Gianni Nardi, ufficialmente morto in un incidente d’auto il 10/9/1976 a Palma di Maiorca, permise di chiudere definitivamente le indagini circa il coinvolgimento dello stesso sia nell’omicidio del commissario Calabresi sia in un enorme traffico d’armi. Un certo Gianni Nardi è presente nelle liste Gladio con la sigla 0565. Gladio sembra entrare anche nella “Strage alla questura di Milano”, avvenuta il 17/5/1973 e che provocò la morte di 4 persone e il ferimento di altre 45. L’autore del gesto criminale, Gianfranco Bertoli, risulta stipendiato dal Sifar, legato al gruppo di destra ‘Pace e Libertà’ e, soprattutto, un aderente dell’organizzazione Gladio con sigla 0375. Negli archivi dei servizi, il giudice istruttore Lombardi trova tracce di pagamenti fatti a Bertoli che usufruisce di una sigla di copertura: TRO31, nome in codice “Negro”. Nel caso Moro, la presenza di Gladio sembra impressionante. E’ stato appurato che almeno 14 giorni prima, la struttura Gladio fosse già a conoscenza del rapimento. Inoltre è stato appurato che alcuni proiettili sparati dai brigatisti in via Fani sembrano avere le stesse caratteristiche di quelle presenti nei depositi Nasco – Nato. La mattina della strage, in maniera del tutto casuale, il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, istruttore presso la base Gladio di Capo Marrargiu, si trovò a passare proprio nel momento in cui il presidente Moro stava per essere rapito dai brigatisti. Anche la stampatrice modello Ab Dick 360 T (matricola n° 938508) utilizzata dalle Br per i loro comunicati durante il sequestro Moro, sembra provenisse dall’Ufficio del Raggruppamento Unità Speciali (Rus), ovvero l’ufficio che provvedeva all’addestramento dei gladiatori. Probabilmente Moro parlò di Gladio nel suo ‘processo’ da parte delle Br, per questo la vicenda legata al memoriale che racchiude le rivelazioni dello statista è molto contorta, con smarrimenti di carte e ritrovamenti casuali, sino alla morte del gen. Dalla Chiesa (ufficialmente ucciso dalla mafia), che entrò in possesso di quelle carte.
Per concludere anche nella morte della giornalista Graziella De Palo e del redattore Italo Toni (foto sopra), sembra entrare la struttura Gladio. I due reporter, rapiti il 2/9/1980 in Libano e poi uccisi, stavano svolgendo un’inchiesta giornalistica su un presunto traffico internazionale di armi tra l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e l’Italia e sui campi di addestramento palestinesi situati nel sud del Libano. Le inchieste condotte sulla morte dei due giornalisti furono depistate da parte dei servizi segreti italiani. Il gen. Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, e il col. Stefano Giovannone, capocentro dei Servizi a Beirut dal 1972 al 1981, risulteranno entrambi legati a Gladio. La loro improvvisa morte interruppe il processo a loro carico per le attività di depistaggio.
La struttura Gladio fu ufficialmente sciolta dal presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti nel novembre del 1990. Contemporaneamente furono dati “in pasto” all’opinione pubblica i nomi dei 622 gladiatori. Agli ex gladiatori fu inviata una lettera di congedo da parte del direttore del Sismi Ammiraglio Fulvio Martini che riassumiamo: «Per ordine del Governo la struttura Stay Behind è stata sciolta in data 27/11/1990. Pertanto alla ricezione della presente la S.V. deve considerarsi sciolta da ogni vincolo connesso alla predetta struttura. Viene quindi a cessare ogni forma di riservatezza. Il Servizio La ringrazia per la consapevole disponibilità offerta nella possibile prospettiva di un compito legittimo e generoso nella malaugurata evenienza di un’occupazione militare dell’Italia. È con questi sentimenti che Le invio il mio grazie ed i miei più cordiali saluti».
Mentre la Russia apriva i suoi archivi segreti, gli Usa aggiunsero altri lucchetti ai loro, rifiutandosi di collaborare con gli organi italiani. In Italia, invece, si pensò bene di distruggere una parte di questi archivi. Ciò ha permesso al Comitato parlamentare, presieduto da Tarcisio Gitti, di votare a maggioranza la conclusione in cui si afferma sia la piena legittimità della struttura sia l’assenza di deviazioni.
Oggi possiamo sostenere che «Non fu quel gesto da operetta descritto dalla magistratura bensì un evento serio che, al pari di successivi, come la Rosa dei venti e il tentato golpe di Edgardo Sogno, va inserito nella “strategia della tensione” di quegli anni. Al golpe Borghese non parteciparono solo i gruppi di estrema destra intenzionati a prendere il potere, ma anche esponenti di alto livello dell’Esercito e dei servizi segreti (P2). In seguito sono emersi inquietanti retroscena. Le rivelazioni dei pentiti mafiosi al processo contro Andreotti e il rapporto conclusivo della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 hanno documentato il coinvolgimento di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della loggia segreta di Licio Gelli (foto sotto). Il piano di Borghese fu il più grave attentato alla democrazia italiana organizzato nel II dopoguerra. Il 29/4/2021 sono stati arrestati in Francia 7 ex terroristi, tutti condannati per atti di terrorismo compiuti oltre 40 anni fa, durante i cosiddetti Anni di piombo. In Italia, dal 1969 al 1982, la violenza politica e il terrorismo fecero 1.100 feriti e 350 morti. Il piombo era quello delle armi utilizzate da organizzazioni come le Brigate Rosse che colpirono carabinieri, poliziotti, dirigenti d’azienda, magistrati, giornalisti, politici, sindacalisti. L’Italia era in un momento di grandi cambiamenti. Tra gli anni ‘50 e ‘60 aveva infatti cambiato pelle. Gli effetti del “boom economico” avevano aiutato il Paese a crescere, lasciandosi alle spalle la miseria del Dopoguerra.
Ma non tutti vissero l’improvviso benessere. La nascita di una moderna economia industriale, soprattutto nell’area tra Milano, Torino e Genova, spiazzò una società modellata sui ritmi dell’economia agricola. Iniziò uno spopolamento dei piccoli centri a vantaggio delle grandi città, che in breve si trasformò in un’emigrazione di massa: fino al 1970, 9 milioni di italiani si spostarono da una regione all’altra, in particolare dal Sud al Nord. Già nel 1965 la crescita aveva rallentato ed erano aumentati i casi di sottoccupazione, precariato, sfruttamento. I salari degli operai erano rimasti bassi, i servizi dello stato insufficienti, il sistema scolastico inadeguato e i modelli culturali arretrati. Così, alla fine del decennio, l’Italia fu scossa da 2 ondate di radicale contestazione: la prima, nel 1968, animata dal Movimento studentesco che chiedeva più giustizia sociale e meno autoritarismo; la seconda, nel ‘69, innescata dalle rivendicazioni degli operai (il cosiddetto ‘autunno caldo’). Manifestazioni, scioperi, occupazioni di fabbriche erano all’ordine del giorno. Si avviò un conflitto sociale di vaste dimensioni e l’Italia sembrò spostarsi a sinistra. Nacquero aspettative rivoluzionarie in molti studenti e operai che avrebbero voluto superare il capitalismo. I governi e gli organi dello stato diventarono sempre più reazionari pur di fermare questo movimento sociale.
Il Partito comunista italiano (Pci) era il più forte di tutto l’Occidente e aveva contribuito alla sconfitta del fascismo. Ma era legato all’Urss, e per questo era stato escluso dal governo nazionale. Gruppi neofascisti, tollerati e mal contrastati, furono responsabili di attentati, azioni squadriste, tentativi di golpe. Scuole e università divennero campi di battaglia. Inoltre, a partire dalle 17 vittime causate dalla strage neofascista di Piazza Fontana, a Milano, il 12/12/1969, una serie di attentati (prevalentemente di estrema destra) macchiarono di sangue il Paese, con un bilancio, fino al ‘74, di 50 morti e più di 300 feriti.
Furono gli anni della cosiddetta ‘strategia della tensione’: si cercò di inasprire il clima politico, di criminalizzare movimenti o partiti di sinistra per convincere l’opinione pubblica (terrorizzata dal disordine sociale) che servisse una svolta autoritaria.
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Ti dicono di essere onesto, e per tutta la vita
ti derubano. Ti ordinano di rispettare la legge,
e la legge protegge il capitalista e ti rapina. Non bisogna uccidere,
mentre il governo impicca la gente, la manda sulla sedia
elettrica o la massacra in guerra.
Ti impongono di obbedire alla legge
ed al governo, anche se legge e governo
sono sinonimi di rapina e omicidio.
A. Berkman
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Solidarietà a Cospito e a tutti i compagni/e arrestati/e
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Cultura dal basso contro i poteri forti
Rsp (individualità Anarchiche)