I contratti di flessibilità al lavoro creano miseria: il reddito annuale di ministri e politici

I contratti di flessibilità al lavoro creano miseria: il reddito annuale di ministri e politici

Ma quanto ci costano questi politici!! E poi parlano di debito pubblico! Ste merde… Il reddito medio annuale di una famiglia di operai con contratti flessibili (a termine) nel 2017 è stato dagli 8 mila euro (se lavora solo uno in famiglia) ai 12 mila euro (se lavorano in 2), senza ferie, senza tredicesima, senza scatti di anzianità e senza garanzia di continuità lavorativa: Jobs Act…

Ma andiamo a vedere il reddito annuo dei nostri papponi o meglio, ministri e politici:

Dal 16 marzo sul sito del parlamento italiano è possibile consultare le dichiarazioni dei redditi (al ribasso naturalmente) del 2017 dei nostri ministri e politici (massomafia – umma umma).

Il reddito annuo del dirigente del partito 5 stelle Beppe Grillo è stato di 420.807, mentre nel 2016 era di 71.957 euro. Nell’ 2015 invece aveva dichiarato un reddito di 355.247 euro; La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli dichiara invece un reddito di 182.016 euro; il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha dichiarato un reddito 166.264 euro. La ministra dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro ha dichiarato 151.672 euro. La ministra della Salute Beatrice Lorenzin dichiara invece un reddito annuale di 91.888 euro; il ministro dell’Interno Marco Minniti dichiara invece un reddito di 92.260 euro. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini dichiara un reddito annuale di 145.044 euro; il presidente dell’Economia Pier Carlo Padoan dichiara un reddito di 122.457 euro; il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti con l’Ue Sandro Gozi ha dichiarato un reddito di 115.914 euro; Il premier Paolo Gentiloni ha dichiarato un reddito di 107.401 euro; il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha dichiarato 104.435 euro; Gianluca Galletti (Ambiente) ha dichiarato un redito di 101.006 euro; Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha dichiarato un reddito annuo di 95.971 euro; la sottosegretaria Maria Elena Boschi ha dichiarato un reddito di 95.971 euro; Il capo politico del Movimento 5 stelle e candidato premier, Luigi Di Maio ha dichiarato un reddito annuo di 98.471,04 euro; Il ministro per la coesione territoriale Claudio De Vincenti dichiara invece 97.607 euro; la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Paola De Micheli dichiara 98.398 euro (dice di possedere titoli azionari del Banco di Napoli e di Mediolanum); l’ex ministro dell’Agricoltura (dimessosi recentemente per diventare reggente del Pd) Maurizio Martina dichiara 98.441 euro; il ministro dello Sport Luca Lotti dichiara un reddito annuo di 98.471 euro; il ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano ha dichiarato 98.478 euro; la ministra della Difesa Roberta Pinotti ha dichiarati 96.458 euro; la collega Marianna Madia ha dichiarato un reddito annuo di 99.519 euro; l’ex ministro degli Affari regionali Enrico Costa (che si è dimesso a luglio del 2017) ha dichiarato un reddito annuo di 99.583 euro; Il presidente del Senato e leader di LeU, Pietro Grasso ha un reddito imponibile di 321.195 euro; nel 2026 era di 340.563 euro. Il reddito invece della presidente della Camera, Laura Boldrini, anch’essa esponente di Leu ha dichiarato un reddito annuale di 137.337 euro, nel 2016 aveva dichiarato un reddito di 144.883 euro; Matteo Renzi nel 2017 dichiara un reddito pari a 107.100 euro, nel 2016 aveva dichiarato un reddito annuo di 103.283 euro; Pierluigi Bersani ha avuto nel 2017 un reddito di 148.096 euro nel 2016 aveva dichiarato un reddito di 150.211 euro; Nicola Fratoianni e Pippo Civati, esponenti di LeU, dichiarano entrambi un reddito di 98.471 euro; la capogruppo alla Camera per il M5S Giulia Grillo ha dichiarato un reddito di 100.219; il deputato M5S Alfonso Bonafede, avvocato e indicato come ministro della Giustizia nella squadra di governo, dichiara un reddito di 186.708 euro; Il leghista Roberto Calderoli ha dichiarato 137.388 euro; Alessandro Di Battista dichiara 113.471 euro; Paola Taverna dichiara 103.456 euro; Laura Bottici dichiara un reddito annuo di 99.699 euro; Nicola Morra dichiara 99.465 euro; Carla Ruocco dichiara un reddito di 94.239 euro; Giorgia Meloni, leader di Fdi, dichiara un reddito di 98.421 euro; Il senatore a vita Renzo Piano dichiara di avere un reddito annuo di 2.990,294 euro; l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dichiarato un reddito di 121.372 euro nel 2016 era di 130.022 euro; Il senatore a vita Mario Monti ha dichiarato un reddito di 421.611 euro nel 2016 era di 862.333 euro; L’avvocato Niccolò Ghedini, senatore di Fi, ha dichiarato un reddito i di 1 milione e 623.533 euro, nel 2016 era di un milione e 645.606 euro; Giulio Tremonti, ex ministro del Tesoro dei governi Berlusconi, si conferma tra i parlamentari con il più alto reddito: ha dichiarato 2.111.533 euro, nel 2016 aveva dichiarato un reddito di 2.540.288 euro. Tutti questi papponi che si ingrassano alla faccia nostra, ci hanno sottratto i diritti primari e ci hanno mandato in miseria (sopravvivenza) con la scusa (o giustificazione) che dobbiamo farci sfruttare per pagare il debito pubblico, creato dagli affari massomafiosi, dalle speculazioni miliardarie che riguardano le mega infrastrutture. Questi parassiti si ingrassano alla faccia nostra e ci costringono a farci sfruttare senza obbiettare, ci vogliono docili, sottomessi, rassegnati e sotto ricatto, perché con la nuova riforma del lavoro, non viene più tutelato il diritto di non essere licenziato senza giusta causa (articolo 18 che fa parte dello statuto dei lavoratori, introdotto grazie alle lotte sociali degli anni ‘70 di studenti e lavoratori!!!)…

Secondo i dati Eurostat riferiti al 2017, l’11,7% degli occupati in Italia, quasi uno su 8, pari a circa 2,6 milioni di persone, è a rischio povertà. Cresce sempre di più il lavoro flessibile e senza diritti, facendo crescere quindi il lavoro precario e part time, è aumentato anche il fenomeno dei “working poor”, ovvero di coloro che pur avendo un’occupazione sono a rischio povertà. Il dato italiano sui lavoratori a rischio povertà è tra i più alti in Ue (fanno peggio solo Romania, Grecia, Spagna e Lussemburgo). Il 18 marzo (ieri) il presidente della Fondazione Di Vittorio, Fulvio Fammoni ha dichiarato ai mass media: “Il numero totale degli occupati, rappresenta un’immagine molto parziale della condizione del lavoro in Italia, dove la qualità dell’occupazione è in progressivo e consistente peggioramento. “E’ evidente dai dati, che la ripresa non è in grado di generare occupazione quantitativamente e qualitativamente adeguata, con una maggioranza di imprese che scommette prevalentemente su un futuro a breve (incassare fondi) e su competizione di costo” (gare d’appalto). Una riforma del lavoro che ha portato i diritti dei lavoratori ai tempi del Medioevo, dove erano schiavi e senza voce in capitolo e dormivano e mangiavano nelle stalle del padrone. Questa riforma del lavoro è piaciuta soprattutto ai padroni, alle cooperative (comprese quelle no – profit) e ai grossi industriali che possono tranquillamente speculare e licenziare quando vogliono, usando il lavoratore come una merce al ribasso. Quell’infido di Berlusconi oggi, per riqualificarsi per le elezioni del 2018, attacca da sinistra la legge Fornero del 2011 sulle pensioni (che ha realizzato un governo di centrosinistra !), convinto che non ci ricordiamo (noi popolo di pecoroni) che nel 2003 Berluska tentò di cancellare l’articolo 18 imponendoci la legge Biagi. Un obbiettivo che è riuscito meglio all’esecutivo di Renzi per i nuovi contratti di lavoro.

Ma entriamo nel dettaglio: lo stato cattosinistroide liberale (fondato dal partigiano bianco Edgardo Sogno) ci impose la legge del 14 febbraio 2003 n. 30 (legge Biagi). La norma viene chiamata anche ‘legge Maroni’ poiché Maroni (era ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali), firmò per primo insieme al Presidente del Consiglio Berlusconi, il disegno di legge. Il 24/10/2003 si disciplinano gli aspetti della legge delega art. 5. che ha lo scopo di verificare il rispetto del contenuto di un contratto di lavoro nei confronti dei diritti e della legge (?), e di ridurre il contenzioso del lavoro per il lavoro intermittente, lavoro ripartito, lavoro a tempo parziale, lavoro a progetto, di associazione in partecipazione. La possibilità di lavorare con contratti flessibili al ribasso, venne in seguito estesa nel 2004 a tutti i contratti di lavoro. Nel 2010 invece la legge del 4/11/2010 n. 183, stabilisce e puntualizza senza lasciare dubbi, che la finalità e la flessibilità dei contratti Di lavoro è quella di ridurre il contenzioso giuslavoristico, trasformandolo in uno strumento completamente a favore del datore di lavoro. La norma disciplina l’utilizzo del lavoro flessibile per limitare il potere dei giudici di annullare le decisioni dei datori, senza introdurre nuove casistiche che potrebbero portare all’illegittimità del recesso, quindi a tutela del lavoratore dipendente. La norma introduce accanto al co.co.co (figura creata nel 1997 con il pacchetto Treu) la nuova fattispecie del co.co. a progetto (legge Biagi). introducendo altre tipologie di contrattazione: dall’apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto. L’intento del legislatore era quella di creare flessibilità in uscita (con gli incentivi dallo stato e licenziamenti facili senza contenzioni) per lasciare liberi gli imprenditori di gestire la forza lavoro esclusivamente in base alle loro furberie, che la logica di mercato offre. La rigidità del sistema crea alti tassi di disoccupazione, abbassando le tutele dei lavoratori. Il contratto co.co.pro. comportò abolizione di diritto per il lavoratore e distinti diritti tra chi lavorava a tempo indeterminato con chi era co.co.pro, questa tipologia di contratto ha come termine il completamento del progetto contrattuale, ma ha operato una profonda modifica nei diritti del lavoratore stesso, abolisce le ferie, la malattia, i permessi, la maternità, persino i versamenti pensionistici non hanno lo stesso valore di un eguale lavoratore a tempo indeterminato. Il contratto a progetto è stato messo più in discussione, perché è un lavoro non subordinato (cosiddetto lavoro parasubordinato), questa formula è divenuta famosa perché utilizzata come sistema per eludere la legge ed evadere oneri contributivi e il minimo salariale sindacale previsto dal rapporto da lavoro dipendente. Nel 2010 il Ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti dichiara ai mass media come abbia dovuto fare marcia indietro riguardo al concetto di flessibilità, dopo i pessimi risultati riguardo alla disoccupazione giovanile del mercato del lavoro Italiano con la legge n° 30. Le imprese che hanno deciso di introdurre le nuove tipologie contrattuali per le assunzioni, ancora oggi beneficiano di sconti contributivi e fiscali e di un maggiore fattore di ricambio del personale, ove quello assunto non si fosse giudicato adatto (sfruttamento dell’uomo sull’uomo). Insomma: una riforma del lavora che incentiva solo quelli più spregiudicati, senza etica e morale (massomafia!!), che applicano i contratti di lavoro precario e sottopagato (i cosiddetti contratti atipici di lavoro – caporalato) che sono considerevolmente aumentati di numero per meglio venire incontro alle molteplici esigenze (business) di un mercato del lavoro eterogeneo e globalizzato. La legge non introduce modifiche alle norme dei contratti a tempo indeterminato, e quindi non poteva essere introdotta nel settore del pubblico impiego (art. 1), dove poi invece, si è rivelato maggiore il ricorso ai contratti a termine e alla loro flessibilità. La legge introduceva anche alcune norme in materia di esternalizzazioni e lavoro in appalto (massomafia umma umma – mondo di mezzo). Gli incentivi dati alle aziende (versare minori contributi, declassificare i lavoratori precari), hanno creato un accantonamento pensionistico inferiore ai loro colleghi con contratti tipici, per via anche della situazione lavorativa instabile e discontinua. Questa situazione, combinata al progressivo invecchiamento della società, oltre ad allungare l’età di pensionamento, porta con sé anche la diminuzione della quota pensionistica dovuta al lavoratore, facendo quindi emergere il dibattito sull’opportunità di integrare le pensioni statali (gestite dall’Inps) con un fondo pensione integrativo privato (il cui rischio ricade totalmente sul sottoscrittore) Che presa per il culo!!….

Il 20/3/2012 ci fu il disegno di legge Fornero, sulla riforma del mercato del lavoro. La legge è stata approvata definitivamente il 27/6/2012 dalla maggioranza di governo (PdL, PD, UdC, e FLI). La riforma Fornero è stata in seguito modificata, nell’ambito del Jobs Act del governo Renzi dal decreto legge 20 marzo 2014, n. 34 (“decreto Poletti”). Tra le novità introdotte dalla legge Fornero ci sono: nuove norme sui rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato, modifiche allo Statuto dei lavoratori per rendere più facili licenziamenti individuali per motivi economici, modifiche ai contratti dei collaboratori e alla durata dei lavoratori a termine con un nuovo sistema di ammortizzatori sociali. Con il Jobs Act il lavoro domenicale diventa regola e obbligo. Nel Jobs Act inoltre c’è stata una particolare attenzione alla clausola di flessibilità (flessibilità- disparità economica), che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane senza neanche pagargli lo straordinario. Se il contratto di lavoro del commercio è soprattutto il veicolo di ogni flessibilità a carico di chi lavora, quello dei bancari corre in soccorso di una esigenza di fondo delle imprese, quella di tagliare il personale e ristrutturarsi con meno costi possibili. Gli scioperi e i cortei di quest’anno, sono serviti solo per avere 85 euro mensili in più al mese in busta paga, non sono serviti per ripristinare l’articolo 18 !!! Ci hanno accontentati con una promessa di aumento mensile in busta paga, per farci stare zitti !!! Che presa per il culo: non pare uno scambio equo !!!…

Perché allora i grandi sindacati firmano queste porcherie? Landini si giustifica parlando di crisi sindacale!! Una giustificazione che serve solo per fare il finto tonto e imporci poi le politiche liberticide di flessibilità e precarietà. CGIL CISL e UlL in questi anni, hanno firmato accordi che progressivamente hanno ridotto i diritti dei propri rappresentati, e per questo non hanno difeso neanche i precari. Il sindacato padronale non è mai stato all’altezza, per paura di perdere i sovvenzionamenti statali, si sono sempre messi in una posizione di contraddizione. Noi vogliamo dei sindacati coerenti, che servano per rivendicare i diritti dei lavoratori e denunciare le tante ingiustizie sociali che ci affliggono quotidianamente, non vogliamo che i sindacati dello stato si nascondano dietro la bandiera dei lavoratori come hanno sempre fatto storicamente pur de magnà! Poi tramano contro. Sì, ci remano contro, firmando qualsiasi legge ingiusta che fa solo danni agli operai (l’ultimo gradino della scala lavorativa), e non alle classi privilegiate. Invece abbiamo dei sindacati corrotti e ambiziosi, che servono solo per tutelare i diritti del commercio e dei bancari. Un sindacato padronale che è sceso poche volte in piazza per ripristinare l’articolo 18, rispetto a quello che avrebbero fatto negli anni ’70, ma in compenso firma accordi sotterranei che vanno contro i diritti dei lavoratori. Ora Basta! Vogliamo il ripristino dello statuto dei lavoratori e dell’articolo 18! e non vogliamo le loro varie modifiche (prese in giro – legge Fornero – Jobs Act) ……

Proseguiamo con la ricerca, perché chi sa domina chi non sa, da qui l’importanza di alzarci di livello culturale, per evitare di essere soggiogati e manovrati…

Il 30 giugno 1965 ci fu la legge n. 1124 e la legge 21 luglio 1965, n. 903 (Testo unico delle norme in materia di infortuni e malattie professionali), che introduceva le pensioni di anzianità e istituiva la pensione sociale e la legge 15/7/1966, n. 604 che regolava invece la materia dei licenziamenti.

Leggi che però furono ignorate dal mondo del lavoro e dalla logica di mercato. Fu solo negli anni ’70, con le lotte (operai studenti e sindacati) e con le mobilitazioni, che riuscirono a far istituire lo statuto dei lavoratori. Sindacati e studenti insieme agli operai hanno lottato per ottenerlo, attraverso gli scioperi, i sit-in, i presidi, cosa che invece, dagli anni ‘90 non è più accaduto!!! O meglio, qualche pagliacciata allegorica, ma poi alla fine i sindacati padronali hanno sempre firmato tutto ciò che non era lecito fare. Lo statuto dei lavoratori (legge n. 300) introdusse importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro. Lo Statuto, sancisce la libertà di opinione del lavoratore (art.1), che non può quindi essere oggetto di trattamento differenziato in dipendenza da sue opinioni politiche o religiose. Lo statuto prevede anche il divieto d’uso di impianti audiovisivi (art.4) e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. La norma è ripresa dal Codice Privacy. Nel 1975 i sindacati ottennero il totale adeguamento dei salari all’inflazione, una riduzione della differenza retributiva fra categorie e un’estensione della Cassa integrazione come ammortizzatore sociale dei licenziamenti. Nel 1977 si giunse infine a una legge che stabilì la parità fra uomo e donna nell’accesso al lavoro e nella retribuzione.

Negli anni ‘60 e ’70, c’erano i diritti e il reddito per i lavoratori stava crescendo, all’inizio degli anni ‘90 invece, c’è stata la grande discesa dei salari e la lunga marcia della precarietà: nel 1997 c’era alla direzione del potere, il governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. Tiziano Treu era ministero del Lavoro. Il suo pacchetto (legge 196 del 1997), ha aperto il mondo del lavoro alla flessibilità contributiva (al ribasso per i dipendenti). Il fronte sindacale si spacca. I leader di Cisl e Uil , Sergio D’Antoni e Pietro Larizza, incitano il ministro ad andare avanti. Più cauto Sergio Cofferati che comunque non sale sulle barricate. La legge entra in vigore il 24 giugno successivo e prevede, tra l’altro, l’introduzione del tirocinio e del lavoro interinale, fino ad allora vietato da una legge del ’60. Il rischio del lavoro interinale e del lavoro atipico è quello di far saltare i criteri di selezione della manodopera che finora hanno governato il mercato del lavoro in Italia. La legge Biagi del 2003 allargò ulteriormente le tipologie contrattuali «atipiche». I livelli di protezione normativa del lavoro, secondo la misura che ne dà l’Ocse, si sono via via ridotti negli anni più recenti, a seguito dell’introduzione di ulteriori livelli di flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. La riforma Fornero (legge 92 del 2012) ha ridotto la possibilità di reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Da ultimo il Jobs act varato dal governo Renzi, ha previsto sia una maggiore libertà nell’uso del contratto di lavoro a tempo determinato, sia l’abolizione di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. I provvedimenti renziani (Jobs Act) sono stati il risultato di un indole liberale cattosinistroide (o di qua o di là basta che se magna!), che ha portato a un progressivo indebolimento della classe lavoratrice a causa dei salari troppo bassi e tutele zero. L’articolo 18 tutelava i lavoratori in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio, costituendo applicazione della tutela reale disciplinando il reintegro con risarcimento e l’indennità in sostituzione della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo (cioè effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) di un lavoratore. Con la riforma del lavoro Fornero invece (legge 28 giugno 2012, n. 92), si applica il licenziamento in extrema ratio, e con la sanzione più conservativa (i ricorsi del lavoratore si riducono a mediazioni – compromessi), penalizzando di fatto il dipendente a contratti atipici, senza tenere conto dei contratti collettivi e nei codici etici o disciplinari aziendali.

Per rivedere una mobilitazione unitaria bisognerà aspettare il 12 dicembre 2011. Le tre maggiori sigle sindacali scendono nelle piazze del Paese contro la riforma Fornero. Lo fanno con uno sciopero generale “soft” di tre ore, mentre al governo ci sono i tecnici guidati dal massone Mario Monti (umma –umma)…

 

Le organizzazioni operaie, costruite sul modello statalistico e centralistico,

con la rimozione del temperamento individuale del singolo,

hanno cancellato il nucleo rivoluzionario della lotta sindacale

e consegnato l’operaio, il protagonista naturale della rivoluzione sociale,

a ruolo di un politico che tratta il prezzo delle cianfrusaglie coi suoi nemici.

Erich Mühsam

 

Cultura dal basso contro i poteri forti

Rsp (individualità Anarchiche)