Il 25 maggio, due giorni dopo l’omicidio di Giovanni Falcone, Borsellino rilasciò un’intervista al giornalista di Repubblica, Giuseppe D’Avanzo, in cui manifestò apertamente la sua intenzione di fornire ai magistrati titolari dell’inchiesta sulla strage di Capaci importanti rivelazioni: “Racconterò fatti, episodi, circostanze, […] racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni”. Il 25 giugno, il magistrato si incontrò in segreto con Mario Mori (foto sopra) e Giuseppe De Donno, uomini del Ros, in una caserma a Carini. Pochi giorni prima, De Donno aveva avvertito Liliana Ferraro (la quale aveva preso il posto di Giovanni Falcone come direttore generale degli affari penali al ministero della Giustizia) di aver avviato una trattativa coi vertici di Cosa nostra grazie all’intermediazione di Vito Ciancimino, ex sindaco DC di Palermo, corleonese e mafioso, che avrebbe accettato questo ruolo in cambio di “garanzie politiche”.
La Ferraro chiese a De Donno (a destra nella foto) di informare Paolo Borsellino e avvertì del colloquio avuto con i Ros il ministro Martelli, il quale, a sua volta, le indicò di parlarne con Borsellino. Avvertito dalla Ferraro di quanto riferito da De Donno il 28 giugno, il giudice si limitò a risponderle: «Ci penso io». La sera stessa, intervenendo a un dibattito organizzato dalla rivista Micromega presso l’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, Borsellino lanciò un grido disperato all’indirizzo della Procura di Caltanissetta, aprendo così il suo discorso: «Questa sera sono venuto soprattutto per ascoltare, perché ritengo che mai, come in questo momento, sia necessario che io ricordi a me stesso e a voi che sono un magistrato. In questo momento, inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone e avendo raccolto comunque, come amico di Giovanni Falcone tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico delle opinioni, delle convinzioni che mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me devo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni, e che, soprattutto nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita».
Domenica 28 giugno, Borsellino incontrò all’aeroporto di Fiumicino il ministro della Difesa Salvo Andò (foto sopra), che lo prese in disparte per parlare con lui di un’informativa del Ros, inviata alla Procura di Palermo, che li individuava come possibili bersagli di un attentato mafioso. Il 1° luglio ebbe luogo il primo interrogatorio dell’ex autista di Totò Riina, Gaspare Mutolo, sentito da Paolo Borsellino nella sede della dia a Roma. Mutolo anticipò al giudice che le sue rivelazioni sarebbero state sconvolgenti, poiché gli avrebbe riferito delle collusioni tra i mafiosi e Bruno Contrada, l’allora numero tre del Sisde, e Domenico Signorino, pm al Maxiprocesso. Il 15 luglio il giudice rivelò a sua moglie Agnese, come da lei stessa raccontato anni dopo ai magistrati, di aver visto “la mafia in diretta” e che qualcuno, quel giorno, gli aveva riferito “che il generale Subranni (capo del Ros, foto sotto) si è ‘punciuto‘” [La “punciuta” è il nome del rituale di affiliazione a Cosa nostra], mostrandosi in tale frangente “turbatissimo”.
Il 16 luglio ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Paolo Borsellino a Gaspare Mutolo, il quale aveva accettato di verbalizzare le accuse a Bruno Contrada e Domenico Signorino il lunedì successivo. I due, però, non si sarebbero mai più rivisti. Il 18 luglio, Paolo fece una passeggiata con la moglie sul lungomare di Carini. Ricostruendo il dialogo, Agnese ha testimoniato che il marito le disse che “non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere“.
“Nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei cc e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (iniziativa del Ros), che aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa tra Stato e Mafia. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”. Quel dialogo con Ciancimino (foto sopra) era finalizzato a convincere il sindaco mafioso di Palermo a collaborare e portare elementi sull’indagine mafia-appalti. Eppure proprio i militari del Ros hanno parlato di “muro contro muro” e “trattativa”. Il legale dei figli di Borsellino, ovviamente, non tiene conto di fatti come la mancata perquisizione del covo di Riina o il mancato blitz per la cattura di Provenzano. Fatti oggetto di processi che hanno portato ad assoluzioni ma che in seno contengono pesanti giudizi sull’operato del tanto amato “Ros”. «Già in precedenti articoli abbiamo evidenziato come poco seriamente siano state prese le dichiarazioni di Spatuzza, sull’uomo sconosciuto presente al momento dell’imbottitura dell’esplosivo. Assolutamente non possiamo condividere anche la banalizzazione che viene fatta sulle rivendicazioni ai tempi delle stragi rispetto la sigla “Falange armata” (la vera falange armata che io ho visto operare seriamente in quegli anni erano le pattuglie di Riina che piazzavano il tritolo. Poi ho visto un’altra falange armata muoversi, uomini dello Stato che hanno fatto di tutto per depistare l’indagine sulla strage via d’Amelio)». Ancora una volta, pur non essendo citato direttamente, sul depistaggio di via d’Amelio viene tirato in ballo il magistrato Nino Di Matteo (foto sotto).
Il pretesto è l’argomentazione sul ritardato deposito, nel processo sulla strage di via d’Amelio, nei confronti di Vincenzo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera che non furono immediatamente depositati.
Tutto ciò è inaccettabile, tenuto conto che il deposito avvenne prima della fine del dibattimento Borsellino bis e vi fu una sentenza del Gip di Catania che archiviò l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta, denunciati da parte di tre avvocati, Di Gregorio, Scozzola e Marasà per “comportamento omissivo”. Il giudice diede loro torto valutando l’operato dei pm come privo di “comportamento omissivo”. Perché questi elementi non vengono mai considerati? Perché quando si parla degli interessi investigativi di Borsellino in quel 1992 non si parla mai dell’intervista che il giudice rilasciò ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), appena due giorni prima della strage di Capaci? In quella video intervista (mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000) i due giornalisti francesi stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri (a sinistra nella foto), fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi (a destra).
Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi. Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in qualche maniera stessero monitorando le vicende che ruotavano attorno all’ex Cavaliere, emerge anche da un altro dato. Qualche anno fa è stato ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne col collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.
Quei nomi contenuti nell’appunto non sono di poco conto e rappresentavano una traccia di ciò che sarebbe stato scoperto successivamente. Gaetano Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni ‘70. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell’Utri, considerato “il tramite, l’intermediario di alto livello fra l’organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore. Più si va avanti in questa storia più è evidente che “menti raffinatissime” si siano messe in gioco per rendere ancor più torbida la ricerca della verità sulle stragi di Stato e sui mandanti esterni che vi sono dietro di esse. Un’azione che vede alternarsi politici, giornalisti, avvocati difensori di stragisti sanguinari ed avvocati difensori di uomini oscuri, appartenenti ad apparati deviati dello Stato (forze dell’ordine, servizi segreti, Gladio). Basta leggere l’intervista, pubblicata su La Repubblica giovedì 4 febbraio, che il collega Salvo Palazzolo ha fatto alla figlia del giudice, ucciso, Fiammetta Borsellino, dopo l’archiviazione del Gip di Messina dell’inchiesta sui pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia sul depistaggio di via d’Amelio. Una vicenda su cui più volte abbiamo espresso la nostra opinione. Un’intervista in cui si parla di “giustizia malata” in riferimento alle valutazioni espresse da due tribunali differenti sui motivi che portarono alla morte del padre. “Mi viene in mente il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa Stato-mafia’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via d’Amelio. La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del ‘Borsellino quater’ rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”. Vedremo, però, come questa pista (la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-Mafia, ma anche di tanti giornaloni e contestatori della trattativa e dei pm che hanno condotto il processo), non può essere considerata come decisiva nella ricostruzione per comprendere ciò che avvenne ormai quasi 29 anni addietro, cioè le stragi di Capaci, via d’Amelio e nel 1993 gli attentati di Firenze, Roma e Milano. La vicenda dell’inchiesta mafia-appalti, archiviata dopo la strage di via D’Amelio (il 14/8/1992 dopo la richiesta dei pm titolari d’indagine, scritta il 13/7/1992 e inviata al Gip il 22 luglio), è particolarmente complessa e nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti. Uno dei titolari di quel fascicolo, Roberto Scarpinato (foto sotto), oggi Procuratore generale a Palermo, ha spiegato in più occasioni come nell’accelerazione “non c’entra assolutamente il dossier mafia-appalti perché quello che è accaduto va molto al di là della storia di appalti regionali. Perché Paolo Borsellino era perfettamente al corrente del fatto che l’inchiesta mafia-appalti era stata temporaneamente archiviata e si aspettava, per riaprirla, l’intervento di altri collaboratori di giustizia.
Come poi è avvenuto”. Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.
La prima: c’è una prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20/2/’91, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di 7 dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione.
Quello che si evince però dall’archiviazione è che non c’erano nomi di politici, né tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Come spiegato dai pm di primo grado del processo Stato-mafia, il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo”, si decide a depositare una seconda informativa mafia-appalti che contiene invece stavolta espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
“Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 1991-‘92 [scriveva Caselli], furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”. Il pm Tartaglia, nella requisitoria, ha spiegato che alcuni nomi di uomini politici (Lima, Nicolosi e Mannino) venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo solamente il 5 settembre 1992, quando con una informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno“venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel ‘91, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”. Come mai quei nomi non erano presenti? Furono volutamente depennati dai Ros dei cc? Borsellino “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra’”. I giudici, che riprendevano le parole scritte dai pm nella memoria conclusiva, affermavano: “Appare incontestabile come la strage di Via d’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”. Comunque si parla anche di “possibili gruppi di potere estranei a Cosa nostra” nella strage di via d’Amelio. E su questi punti, così come sulla presenza di mandanti esterni delle stragi, vale la pena ragionare proprio per comprendere come la trattativa, o forse sarebbe meglio dire le trattative, sia davvero un nodo centrale. La difesa dei cc Mori-De Donno e Subranni, da sempre ha fatto riferimento ad una data, quella del 25/6/’92, in cui Paolo Borsellino si recò presso la caserma Carini di Palermo, spiegando che il tema affrontato fu proprio l’inchiesta mafia-appalti. Altra domanda: se davvero era così rilevante quell’incontro come mai Mori e De Donno nulla dissero ai magistrati che si occupavano della strage? Un silenzio che durerà fino al 1997 quando si pente Angelo Siino, noto come “ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, portando con sé anche la polemica sul famoso rapporto mafia-appalti. Evidentemente l’oggetto di quell’incontro riguardava altro.
L’ex braccio destro del giudice ucciso, il tenente Carmelo Canale, riferì al processo Borsellino quater che nelle ultime settimane di vita Paolo Borsellino stava cercando di fare luce sull’anonimo, conosciuto come ‘Corvo 2’: una lunga lettera indirizzata, tra gli altri anche al magistrato, in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato col boss Totò Riina.
Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare, proprio il 25/6/’92, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei cc, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava tra l’altro di incontri tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa. In incognito il teste e il magistrato andarono alla caserma Carini, a Palermo, per l’incontro al quale partecipò anche il superiore di De Donno, l’allora colonnello Mario Mori.
E’ ampiamente riconosciuto che, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino fosse il magistrato di punta della lotta alla mafia. Ed è facile pensare che fosse al corrente delle stesse cose. Sapeva dei vecchi affari di Cosa nostra che aveva impiantato una base al Nord, a Milano, negli anni ‘70. E quelle “storie” erano tutt’altro che vecchie o prive di fondamento. E lo dimostra proprio con quell’intervista ai due giornalisti francesi, in cui si sottolinea i rapporti che Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, a Milano, avrebbero intrattenuto con personaggi delle famiglie palermitane.
Nelle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Dell’Utri è scritto che per 18 anni, dal ’74 al ’92, l’ex senatore è stato il garante dell’accordo tra Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Cinà (Gaetano Cinà), sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. In quella sentenza i giudici mettevano anche in rilievo come “il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda (foto sotto) e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi, veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5”.
Se Borsellino aveva intuito tutto questo è ovvio che fosse divenuto un ostacolo non solo per la trattativa in corso, ma anche un problema per chi stava preparando la discesa in campo di Forza Italia. Un nuovo potere che sicuramente il giudice avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato i vertici di quel nuovo potere, ovvero Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
La Procura di Firenze oltre vent’anni fa li aveva indagati, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un’inchiesta che partiva dalle stragi del 1993 fino ad arrivare alla mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma del ‘94. Per gli inquirenti quei fatti di sangue rientravano “in un unico disegno che avrebbe previsto una campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa”. “Nel corso di quelle indagini (si leggeva ancora nel decreto di archiviazione del ’98), erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali”. Dal canto suo il Gip aveva evidenziato che le indagini svolte avevano “consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli indagati Dell’Utri e Berlusconi) di cui si tratta, intrattenuto rapporti non meramente episodici coi soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili col fine perseguito dal progetto”.
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Capaci, fine storia mai: chi sono le menti raffinatissime di cui parlava Giovanni Falcone?
https://www.la7.it/atlantide/video/capaci-fine-storia-mai-chi-sono-le-menti-raffinatissime-di-cui-parlava-giovanni-falcone-20-05-2020-326082
Dell’Utri, Mangano, la mafia: – che cosa sapeva Borsellinohttps://speciali.espresso.repubblica.it/pdf/borsellino.pdf
L’intervista a Paolo Borsellino due giorni prima della strage di Capaci – video https://www.rainews.it/video/2022/05/lintervista-a-paolo-borsellino-due-giorni-prima-della-strage-di-capaci—video-91b4d59a-47b7-4cd2-bb96-cf7d5254c4e3.html
Depistaggio strage via D’Amelio. Dopo Fiammetta Borsellino, in Commissione Antimafia Ars sarà sentito Salvo Palazzolo (17 Settembre 2018) https://www.ilgazzettinodisicilia.it/2018/09/17/depistaggio-strage-via-damelio-ieri-fiammetta-borsellino-in-commissione-antimafia-ars-giovedi-salvo-palazzolo/
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Ci si dica pure che siamo dei “senza patria”,
può anche darsi che sia così. Ad ogni modo,
se una patria noi dovessimo sceglierci,
sceglieremmo sempre la patria degli oppressi,
e non quella deli oppressori.
Errico Malatesta
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Solidarietà a tutti i compagni/e detenuti ingiustamente.
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Cultura dal basso contro i poteri forti
Rsp (individualità Anarchiche)