4 gennaio anniversario della ‘Strage del Pilastro’: sbirri che si uccidono tra sbirri

Uno Bianca, i 25 anni della strage del Pilastro. Le foto

Il 4 gennaio è stata festeggiata la solita pagliacciata del sindaco di Bologna che ricordava gli sbirri della Uno bianca che hanno eseguito  ‘L’eccidio del Pilastro (sbirri che si uccidono tra sbirri per competizione, per acquisire più potere militare e per stabilire le loro gerarchie).

Con la strage del Pilastro persero la vita tre carabinieri, fu una strage compiuta dalla Banda della Uno bianca, un gruppo criminale che ha eseguito azioni, apparentemente, senza un chiaro movente e caratterizzate da una ferocia omicida del tutto irragionevole rispetto ai presunti obbiettivi, terrorizzando, indisturbata, una parte del nostro paese per 7 lunghi anni (continuazione della strategia della tensione anticomunista). Una storia che da Bologna arriva fino a Catania, passando per Castelvolturno. Le analogie con la banda del Brabante Vallone (banda di serial killer che insanguinò la provincia belga del Brabante tra il 1982 e il 1985, assassinando 28 persone e ferendone altre 40). Il ruolo della Falange armata, entità a nome della quale furono rivendicate un elevato numero di azioni criminose e terroristiche negli anni ‘90 in Italia, di Cosa Nostra, termine che viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli USA), sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale, e di Gladio anticomunista, organizzazione paramilitare, frutto di una intesa tra la CIA e i Servizi segreti italiani, attraverso atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche.   Uno bianca: gli arresti (da «Il Resto del Carlino», 23-27 novembre 1994) |  Biblioteche Bologna           La ‘Uno bianca’ eseguì 103 azioni criminali in Emilia Romagna e Marche tra il 1987 ed il 1994; 91 rapine ed altri 11 attacchi al solo scopo di uccidere senza nessun obiettivo economico. La ‘banda della Uno bianca’ non è stata una semplice “impresa criminale di natura familiare”, è stata una delle vicende più oscure della storia italiana ed è tuttora una delle chiavi per cercare di comprendere i tentativi di destabilizzazione dell’ordine democratico messi in atto dalle forze oscure della “strategia della tensione anticomunista” che si è svolta in Italia. Dopo le prime rapine ai caselli autostradali, tra il gennaio del 1988 ed il giugno 1989, i banditi della Uno bianca si specializzarono nelle rapine ai supermercati Coop, 8 dei quali finirono nel loro mirino, con azioni condotte in abbigliamento militare, i volti travisati, e con un volume di fuoco tale da ricordare gli episodi della banda del Brabante Vallone. La banda del Brabante Vallone condusse 16 azioni terroristiche nei supermercati, prima di sparire nel nulla. Le auto usate, tra cui una onnipresente Volkswagen Golf, venivano guidate con una tecnica che si apprende negli addestramenti militari, simile a quella adottata dalla banda della Uno Bianca in almeno un’occasione.

La ‘Uno bianca’ usava armi automatiche e d’assalto come quelle in dotazione alle unità speciali delle forze NATO, senza lasciare bossoli. Le indagini della commissione d’inchiesta istituita dal parlamento sulla banda, si scontrarono con le incredibili omissioni della polizia, oltre che con le resistenze di strutture militari che in seguito si apprese facevano parte della operazione Stay Behind anticomunista della Nato, e conclusero che “le stragi eseguite dalla Uno Bianca erano state opera di governi stranieri [Nato] o di servizi segreti che lavoravano per gli stranieri, un terrorismo volto a destabilizzare una società antifascista”.

La vicenda della banda attraversa una delle fasi cerniera della storia italiana del II dopoguerra, in uno degli snodi più complessi ed intricati, tra la prima e la cosiddetta “seconda repubblica”, tra la fine del sistema dei partiti che aveva affrontato il II dopoguerra e la nuova organizzazione del consenso politico scaturita dal superamento del PCI e dalla scomparsa della DC e del PSI; tra le prime rivelazioni sull’esistenza dell’operazione coperta Gladio, e lo scontro tra lo stato e l’ala stragista dei corleonesi di Cosa nostra, in seguito alla celebrazione del I maxiprocesso alla mafia a Palermo, con le bombe di Capaci e di via D’Amelio; tra la caduta del muro di Berlino e i venti di guerra nell’ex Jugoslavia ed in Iraq; tra il tentato golpe in Russia che segnò la fine della Perestrojka; tra la ridefinizione degli obiettivi della NATO e l’accelerazione europea per dare forma alle istituzioni economiche e finanziarie che in seguito daranno vita all’Euro. Tra gennaio ed agosto del 1991 la Uno bianca effettuò i colpì più eclatanti, ognuno dei quali venne scandito dalle telefonate alle agenzie stampa della Falange Armata, la sigla che ha rivendicato circa 400 episodi di cronaca criminale e mafiosa tra la primavera del 1990 ed il marzo del 1994, con comunicati deliranti che veicolavano messaggi di minaccia verso stranieri, operatori penitenziari, giornalisti (in particolare chi si occupava sulle pagine dell’Espresso e di Repubblica delle inchieste su Gladio), istituzioni e simboli dello stato. Il nome di Francesco Sgrò è collegato ad una delle più gravi stragi compiute in Italia, fu coinvolto infatti nelle indagini per la strage dell’Italicus (foto sotto), autore di un depistaggio che gli costò una condanna a 17 mesi di reclusione. Il 4 agosto 1974, la vettura n° 5 del treno espresso Roma-Monaco di Baviera, Italicus, che partiva dalle pensiline della stazione di Tiburtina alle 17:30, saltò in aria all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, nei pressi di Bologna, uccidendo 12 persone e ferendone 48. Francesco Sgrò incassò un milione di lire per questa informazione e il giornale del MSI, il Secolo d’Italia, imbastì la sua campagna sulla “pista rossa” della strage. L’attentato fu però rivendicato subito da Ordine Nuovo, con un volantino abbandonato in una cabina telefonica di Bologna.

Il 22 settembre ed il 1° ottobre 1991, il contenuto dei comunicati della Falange Armata ai mass media di Roma e Bologna si fecero ancora più minacciosi nei confronti di Sapio (sostituto procuratore di Rimini che indagò sulla ‘Uno bianca’), con minacce esplicite di morte se non avesse abbandonato le indagini. Ad oggi non è stato possibile individuare con certezza chi fossero gli autori dei comunicati della misteriosa sigla, benché sia stato acclarato, grazie alle rivelazioni di diversi pentiti di mafia, come Maurizio Avola, il braccio destro del boss Nitto Santapaola, che la Falange armata era la sigla che doveva servire per rivendicare le azioni terroristiche di attacco allo stato condotte da Cosa nostra. “Si trattava in definitiva di una strategia della tensione e del terrore che Cosa nostra avrebbe potuto portare avanti colpendo anche obiettivi che non rientravano tra i tradizionali obiettivi della mafia e per i quali, sulle prime, sarebbe sembrato difficile individuare un risultato positivo per Cosa nostra”. A corollario della strategia dei corleonesi, come rivelato nel 1992 anche da Leonardo Messina alla Commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante, c’era la volontà di Cosa nostra e di settori della massoneria, di dare un sostegno politico alle formazioni separatiste che all’inizio degli anni ’90 iniziavano a moltiplicarsi anche in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, sulla scia della Lega Nord. La fibrillazione politica aveva tra gli sponsor e promotori alcuni nomi noti alle cronache della strategia della tensione, tra cui Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie, i quali furono “riattivati” col compito di dare vita ad una miriade di piccole formazioni separatiste. E’ un particolare non sottovalutabile che, prima dell’assassinio dell’on. Salvo Lima, a Palermo, mesi prima quindi delle bombe di Capaci e via D’Amelio, uno strano personaggio, Elio Braccioni Ciolini, un neofascista che all’inizio degli anni ’80 aveva rotto con Stefano Delle Chiaie, diventato poi un borderline che aveva collegamenti coi servizi segreti e con la criminalità organizzata, in carcere per false rivelazioni sulla strage di Bologna, il 15/4/’92, aveva fatto recapitare un messaggio ad un magistrato bolognese, Leonardo Grassi, in cui rivelava quanto segue: “Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone ‘comuni’ in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico PSI, PCI, DC, sequestro ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica”. La storia si ripete, dopo quasi 15 anni ci sarà un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti. Anche l’omicidio di Salvo Lima fu rivendicato da un comunicato della Falange armata, in cui la sigla si attribuiva la paternità dell’assassinio dell’uomo che, nella DC siciliana, rappresentava un punto di riferimento per Giulio Andreotti, aspirante successore di Francesco Cossiga alla carica di presidente della Repubblica.

L'ambasciatore del futuro? "Si faccia due anni in un'impresa"

Ma chi era la Falange Armata? L’ambasciatore Francesco Paolo Fulci (foto sopra), all’epoca (tra il 1991 e il ‘93) a capo del CESIS, l’organismo di controllo sui servizi segreti che tra il 1977 e il 2007 aveva la funzione di garantire l’unità della direzione politica dei servizi, e che rispondeva direttamente al presidente del consiglio dei ministri, arrivò ad ipotizzare un collegamento tra la Falange armata e il reparto OSSI (Operatori Speciali Servizio Italiano) della 7a divisione del SISMI, al cui settore dipendeva la struttura Gladio ed il GOS (Gruppo Operativo Speciale). OSSI era un reparto altamente addestrato per compiti di guerra non ortodossa e guerra psicologica. Seguendo per logica dell’ipotesi di Fulci, la Falange armata sarebbe stata quindi un’operazione coperta, sviluppata per volontà delle istituzioni, con finalità di terrorismo psicologico e, considerate le modalità adottate, avrebbe operato per confondere l’opinione pubblica e gli inquirenti, spingendoli su false piste investigative, nel quadro di un programma di destabilizzazione e per imporre l’autoritarismo militare.

BERETTA AR70/90 cal. 5,56 Nato (CA09807C) - Nuova Jager

Tra le armi trovate in possesso ai fratelli Savi furono sequestrati fucili semiautomatici AR70 calibro 5,65 (foto sopra), in dotazione alle forze armate NATO, Colt .357, Sig Manurhin ed altre armi d’assalto compatibili con le azioni criminali effettuate in quegli anni, ed imputate alla banda. In particolare i componenti della Uno bianca, destarono  stupore nell’opinione pubblica, soprattutto perché  Roberto e Alberto Savi, Marino Occhipinti, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli,  erano tutti poliziotti, tranne Fabio Savi, uniti tra loro dall’ideologia fascista e da forti sentimenti xenofobi. Roberto Savi, il capo della banda, nato a Forlì nel 1954, era entrato in polizia nel 1976 e negli anni in cui imperversava la banda, era diventato assistente capo presso la centrale radio della Squadra mobile di Bologna, un ruolo strategico che gli consentiva di controllare tutti i movimenti delle pattuglie. Collezionista di armi in dotazione alla NATO, ed esperto di esplosivi, Roberto Savi è stato militante del Fronte della Gioventù e sindacalista della Cisnal di Rimini nel 1973, all’età di 19 anni, quando questa aveva come leader Nestore Crocesi, un neofascista implicato nell’inchiesta sulla Strage di Piazza Fontana, braccio destro dell’avvocato missino Pasquarella, referente di Caradonna e Romualdi, il quale a sua volta era stato collegato al movimento fondato da Edgardo Sogno e Luigi Cavallo, Pace e Libertà (partigiani bianco anticomunisti). Dalle relazioni della Uno bianca con la criminalità organizzata, provenivano i proventi del vero business di Roberto e Fabio Savi, cioè il traffico di armi dall’Ungheria e dalla Romania. Le cifre emerse durante il processo alla banda della uno bianca parlano di traffici di armi importanti, circa 400 Kalashnikov importati in Italia solo da Fabio Savi, per sua stessa ammissione, mentre Roberto Savi ha ammesso solo di aver fatto entrare armi attraverso le frontiere. Fabio Savi ha ammesso di essersi incontrato con Somogyi, trafficante di armi ungherese, tra il 1991 e il ‘93, dal quale avrebbe acquistato le armi e trattato anche un misterioso “traffico internazionale di Mercurio Rosso”. I Savi erano in contatto anche col pluripregiudicato catanese Guglielmo Ponari, l’armiere delle cosche etnee e di molti clan della camorra campana, famoso per aver inventato negli anni ’60 la penna-pistola. Il contatto era intermediato da un altro pregiudicato catanese, Agatino Grillo, infermiere generico con funzioni di portantino che ogni 15-20 giorni si recava a Bologna. Il più giovane dei fratelli Savi, Alberto, riferì ai giudici dei rapporti con la camorra di Poggiomarino, città dove imperava il clan dei Galasso, alleato del clan di Carmine Alfieri di Nola, uno degli elementi di vertice del cartello della Nuova Famiglia e affiliato a Cosa nostra. Non stupiscono quindi i collegamenti tra Roberto Savi e alcuni esponenti ex cutoliani della camorra casertana, confluiti nel cartello dei casalesi in seguito alla sconfitta della NCO da parte del cartello della Nuova Famiglia, a cui aderivano i boss di Casal di Principe. Tra questi spicca la figura di Francesco Paccone, detto “bakonki”, arrestato a Marcianise, nel territorio del clan Belforte, alleato dei boss Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti. Eva Mikula ex di Fabio Savi: rivelò ai magistrati che Fabio Savi le confidò di essere stato in una villa del casertano insieme alla Falschlunger, dove gli fu proposto di diventare killer, dietro compenso, per i boss casalesi. C’è infine una dichiarazione di un pentito di Camorra, Rosario Allocca, di Frattamaggiore, a suo dire un confidente del SISDE, famoso per aver confessato di aver piazzato, per ordine del capocentro del SISDE di Genova, Augusto Maria Citanna, una bomba sul treno Siracusa-Torino nell’ottobre del 1993, alla stazione di Roma Ostiense, ritrovata dallo stesso Citanna, che per questa ragione fu condannato a 14 anni di reclusione. Allocca, detto ‘o spione’, rivelò che Mario Iovine (foto sotto), poco prima che venisse ucciso in Portogallo, gli avrebbe confidato di avere delle protezioni nella questura di Bologna, e di conoscere gli esecutori degli eccidi e delle stragi della banda della Uno Bianca.

Omicidio Mario Iovine, due ergastoli - Corriere del Mezzogiorno

Nel piano militare della strategia della tensione c’era anche la strage di stato della stazione di Bologna. Il verdetto di 1.704 pagine che ha condannato all’ergastolo in primo grado, Paolo Bellini, un criminale con una storia impressionante: negli anni del terrorismo era un killer neofascista, latitante in Italia con una falsa identità brasiliana, e nel ventennio successivo è diventato un sicario della ’ndrangheta, reo confesso di almeno 11 omicidi, e un infiltrato dello Stato in Cosa nostra. Nelle motivazioni depositate, i giudici concludono che Bellini fu «certamente» uno degli esecutori della strage di Bologna, ma era «una pedina» che obbediva a «un livello superiore»: «una rete eversiva e occulta», più segreta di Gladio, composta da «militari ed esponenti dei servizi segreti deviati, che seguivano le direttive dei vertici della loggia P2». La ricostruzione giudiziaria fa luce per la prima volta anche sulle coperture politiche della latitanza di Bellini, prima e dopo la strage, che secondo la sentenza furono garantite da almeno 3 parlamentari del Movimento sociale italiano (Msi): lo storico partito da cui sono nati An e poi FdI, che ne conserva il simbolo della fiamma tricolore. Il 2 agosto fu una strage fascista e piduista, una verità sulla strage di Bologna che la destra e i servizi segreti ancora oggi rifiutano per destabilizzare la verità. Tutta la verità sullo storico eccidio alla stazione: l’alleanza tra bande della destra eversiva, i complici nei servizi segreti, le false piste estere. I familiari delle vittime: la P2 è al centro di tutta la strategia della tensione. A Bologna si è consumata la peggiore di tutte le stragi, l’attentato terroristico più grave nella storia dell’Italia repubblicana. L’obiettivo del terrorismo nero, in quel tragico 1980, è la città simbolo della sinistra democratica e antifascista. La bomba è programmata per causare una carneficina: esplode alle 10.25 del primo sabato di ferie di massa nella grande sala d’attesa della stazione, affollatissima di viaggiatori e turisti. L’esplosione fa crollare un’intera ala della stazione, tra migliaia di persone impaurite che gridano, si lamentano, piangono, cercano amici e familiari scomparsi. L’attentato provoca 85 morti e oltre 200 feriti, molti dei quali gravissimi, con mutilazioni e invalidità permanenti. Alcune vittime, tra cui una bambina di 2 anni, vengono disintegrate: di loro non resta niente. Negli anni delle stragi nere, Pier Paolo Pasolini denunciò le reti di potere che coprivano il terrorismo neofascista in un articolo storico, scandito dalla celeberrima iterazione: «Io so… io so… io so… Ma non ho le prove». Oggi l’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna ricorda l’ecatombe del 2 agosto 1980 con un manifesto che sembra esaudire quell’invocazione di giustizia. Sopra un’immagine della lapide coi nomi delle 85 vittime, campeggia questo titolo: «Sappiamo la verità e abbiamo le prove». Secondi i giudici gli ultimi processi hanno fornito un’ulteriore serie di prove molto pesanti, evidenziate nelle sentenze più recenti, anche della colpevolezza di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, esegutori della Strage di Bologna, che per altro sono tornati da tempo in libertà (è questa la giustizia sociale? E la nostra costituzione antifascista?). Perché una parte della destra non può dire la verità sulla strage di Bologna? Per quali motivi la premier Giorgia Meloni e altri esponenti di Fratelli d’Italia non hanno voluto riconoscere neppure dopo 43 anni, nel giorno della commemorazione delle 85 vittime, che l’eccidio del 2 agosto 1980 fu commesso da terroristi neofascisti? Come mai Marcello De Angelis, già vicecapo del gruppo armato Terza Posizione, oggi portavoce del presidente della Regione Lazio, continua a difendere non solo il cognato, Luigi Ciavardini, ma anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, i killer dei Nar, condannati in tutti i gradi di giudizio, che confessarono di aver ucciso perfino i loro camerati?

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Ti dicono di essere onesto, e per tutta la vita

ti derubano. Ti ordinano di rispettare la legge,

e la legge protegge il capitalista che ti rapina.

Ti insegnano che non bisogna uccidere, mentre

il governo impicca la gente, la manda sulla sedia

elettrica o la massacrano in guerra.

Ti impongono di obbedire alla legge

ed al governo, anche se legge e governo

sono sinonimi di rapina e omicidio.

A. Berkman

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Solidarietà alle compagne e ai compagni ingiustamente arrestati.

Fascisti carogne, tornate nelle fogne!

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Cultura dal basso contro i poteri forti

Rsp (individualità Anarchiche)