La mafia dei sindacati che si ingrassano mentre i lavoratori sono alla fame!

La mafia dei sindacati che si ingrassano mentre i lavoratori sono alla fame!

23 settembre 2015

I sindacati di stato, nel 2001 hanno firmato e modificato la riforma sul lavoro che cancellava i diritti dei lavoratori previsti dal contratto nazionale, legittimando il precariato a vita

Quanti miliardi incassano i sindacati?

I bilanci segreti di Cgil, Cisl e Uil …..

I sindacati si guardano bene dal pubblicare un bilancio sul business delle tessere. Spiccioli, rispetto al vero giro di soldi delle confederazioni, che negli anni si sono trasformate in apparati capaci di lucrare pure su cassintegrati e lavoratori socialmente utili (nell’ultimo anno l’Inps ha versato a Cgil, Cisl e Uil 59,4 milioni di trattenute su ammortizzatori sociali).

Ai primi di novembre 2014 ha mollato di colpo il suo incarico il segretario mediocre, esoso, cattofascista della Cisl, Raffaele Bonanni: nel palazzo circolava un dossier dove si documentava l’impennata del suo stipendio dai 79 mila euro precedenti la nomina ai 336 mila del 2011. Il presidente del patronato Inas-Cisl, Antonino Sorgi, per esempio, nel 2014 ha portato a casa 77.969 euro di pensione, più 100.123 per l’Inas e altri 77.957 per l’Inas immobiliare.

Il Segretario Generale della Fim Cisl di Salerno con il Segretario Nazionale della Cisl Raffaele Bonanni, il Segretario Nazionale della Fim Giuseppe Farina ed il Segretario Nazionale della Fim Cisl Marco Bentivogli

I veri bilanci dei sindacati sono uno dei segreti meglio custoditi del Paese. Lo zoccolo duro delle finanze sindacali è la tessera, che ogni iscritto paga con una piccola quota dello stipendio di base (o della pensione). Nei bilanci delle tre confederazioni sono indicati complessivamente 68 milioni 622 mila 445 euro e 89 centesimi. Ma è una presa in giro bella e buona. Si tratta infatti solo delle quote trattenute dalle holding. Per avvicinarsi alla cifra vera bisogna seguire un altro percorso. Cgil, Cisl e Uil dichiarano di rappresentare tutte insieme 11 milioni 784 mila e 662 teste (che scendono in picchiata quando è il momento di versare i contributi alla Confédération Européenne des Syndicats, dove si paga un tanto per iscritto). I sindacati chiedono per l’iscrizione lo 0,80% della retribuzione annua ai lavoratori attivi e la metà ai pensionati.

Conoscendo la ripartizione degli iscritti tra le due categorie, gli stipendi medi dei dipendenti italiani (25.858 euro lordi, secondo l’Istat) e le pensioni medie (16.314 euro lordi, per l’Istat), è dunque possibile fare il conto. La Cgil dovrebbe incassare 741 milioni di euro e rotti (loro ammettono poco più della metà: 425 milioni). Alla Cisl si arriverebbe a 608 milioni (in via Po parlano di 80 milioni circa). E la Uil intascherebbe 315 milioni.

Solo le tessere garantirebbero dunque quasi 1,7 miliardi. Ma una cosa è certa: il tesoretto delle tessere non vale solo i circa 600 milioni e spicci che dicono Cgil, Cisl e Uil. Nell’ultimo anno solo l’Inps ha trattenuto dalle pensioni erogate, e girato a Cgil, Cisl e Uil, 260 milioni per il pagamento della tessera sindacale. Una cifra alla quale va sommata la quota-parte di competenza delle confederazioni sui 266 milioni che l’Inps incassa da artigiani e commercianti e poi trasferisce alle organizzazioni dei lavoratori per la tassa di iscrizione. Già con queste voci si arriva vicino alla somma totale ammessa da Cgil, Cisl e Uil. I conti dunque non tornano.

Fin qua abbiamo comunque parlato di soldi di privati e quindi di affari dei sindacati e di chi decide di finanziarli (anche se Cgil, Cisl e Uil non sempre giocano pulito: una serie di meccanismi impone a chi straccia la tessera di continuare a versare a lungo il suo obolo). Poi c’è, però, tutto il capitolo dei quattrini pubblici, dove la trasparenza non dovrebbe essere un optional. In prima fila si trovano i Caf, i centri di assistenza fiscale che aiutano i cittadini per la dichiarazione dei redditi (e intanto fanno proselitismo): in teoria sono cosa a parte rispetto ai sindacati, ma il legame è strettissimo.

La legge di Stabilità 2011 ha tagliato i loro compensi. Così piangono miseria, tanto più oggi con l’arrivo della dichiarazione precompilata, che toglierà loro clienti. Ma che presidino un business ricchissimo lo dimostra un fatto: per scardinare il loro monopolio è dovuta intervenire, il 30/3/2006, la Corte di Giustizia Europea, che ha imposto al governo italiano di consentire la presentazione dei modelli 730 anche a commercialisti, esperti contabili e consulenti del lavoro.

All’Agenzia delle Entrate dicono che su 19 milioni, 41 mila e 546 dichiarazioni 2014 quelle passate dai Caf sono più di 17,6 milioni (il 92,6%). Siccome i centri di assistenza incassano dallo stato 14 euro per ogni dichiarazione (e 26 per i 730 presentati in forma congiunta dai coniugi) e il 45% del settore è appannaggio dei sindacati è facile calcolare il loro giro d’affari: se anche le dichiarazioni che compilano e presentano fossero tutte singole (e così non è) si arriverebbe a più di 111 milioni. In questo caso, i dati ufficiali del ministero dell’Economia non si discostano troppo dalle stime: dicono che nel 2014 il Caf della Cgil ha incassato 42,3 milioni di euro (oltre ai contributi volontari della clientela), quello della Cisl 38,6 milioni e quello della Uil 15,5 milioni. Ai quali vanno sommati i 20,5 milioni che l’Inps ha versato nell’ultimo anno ai Caf confederali per i modelli 730 dei pensionati. E gli ulteriori 33,9 milioni sborsati sempre dall’istituto presieduto dal professor Tito Boeri a favore dei Caf confederali per la gestione di servizi in convenzione (dalle pratiche relative agli assegni di invalidità civile a quelle dell’Isee, l’indicatore per l’accesso alle diverse prestazioni assistenziali).

Il copione si ripete da anni. A ogni annuncio di modifica delle leggi sul mercato del lavoro, Cisl e Uil sono pronti ad ascoltare le proposte del governo di turno. Salvo poi criticarle una volta che, trasformate in leggi, ne vedono gli effetti reali. La Cgil invece parte, si può dire, avvantaggiata: oppone sempre (o quasi) “no” incondizionati alle riforme. Oggi sembra di leggere la stessa trama col dibattito sull’articolo 18 e la riforma contenuta nel Jobs Act…

Ora andiamo ad analizzare i danni della nuova riforma sul lavoro

Quel piduista infame di Berluska, insieme alle associazioni padronali (su indicazione dell’Unione Europea), avevano preparato nel 2001 un progetto di revisione totale della legislazione del rapporto e del mercato del lavoro, che consisteva nel togliere agli operai i loro diritti conquistati nelle lotte di classe negli anni ‘70 (statuto dei lavoratori).

La modifica sulla riforma, contenuta nella legge delega del novembre 2001 e nel “libro bianco sul lavoro” poggia su tre concetti chiave: flessibilità, formazione e occupabilità della forza lavoro finalizzate a ridurre la massa dei disoccupati e nello stesso tempo a offrire alle aziende un nuovo ventaglio di strumenti per sfruttare in modo più efficace la manodopera riducendone i costi.

Il concetto di occupabilità è chiaramente spiegato nel libro bianco dove si dice che le caratteristiche della nuova organizzazione della produzione e del mercato del lavoro impongono che il percorso lavorativo deve adattarsi a cicli in cui si alternano diverse fasi di lavoro a tempo, intervallate da periodi di disoccupazione più o meno lunghi. L’ampiezza di queste fasi alterne occupazione/disoccupazione dipenderanno sia dalla congiuntura economica sia dall’efficienza del mercato del lavoro. Occupabilità è dunque sinonimo di precariato, e una volta affermata la generalizzazione di questa condizione non resta che rivedere tutte le regole del diritto del lavoro in funzione del secondo concetto chiave, la flessibilità del mercato del lavoro.

Coerentemente a questi principi, le nuove norme non saranno più rigide e vincolanti ma verranno stipulati accordi quadro contenenti un numero ristretto di principi di indirizzo generale mentre per le materie specifiche come assunzione, licenziamenti, salari, regimi di orario ecc., saranno adottate regole più elastiche con ampie possibilità di deroga e clausole di disapplicazione delle stesse norme in caso di crisi o scelta individuale del lavoratore.

In questa logica, viene riscritto anche il sistema di contrattazione collettiva. riducendone fortemente la valenza per favorire la contrattazione individuale introducendo un sistema di contratti che ammettono più scelte su singoli istituti in una logica di scambio del tipo: più sicurezza del posto di lavoro meno salario, più salario in cambio di un diverso regime di orario (turni, part time, pause) e così via. rafforzando la contrattazione decentrata legandola in maniera più stretta al territorio (mobilità, differenziazione salariale ecc).

 

Ma l’obiettivo del governo è soprattutto la rimodulazione di tutte le tipologie di contratti di assunzione depurandoli delle parti che si sono rivelate inefficaci alle diverse esigenze delle imprese così verranno aumentati gli incentivi fiscali e ulteriormente ridotti i salari nei contratti di gradualità e di emersione e verranno legalizzate tutte quelle forme di rapporto di lavoro definito parasubordinato (collaborazioni coordinate, lavoro dipendente con Partita Iva ecc.) creando una nuova tipologia contrattuale definita “lavoro intermittente” o “a chiamata” gestita da agenzie di lavoro private come sviluppo del lavoro temporaneo da affiancarsi al lavoro interinale.

La formazione naturalmente assume nella riforma un ruolo del tutto marginale nel senso che viene volutamente indirizzata per la specializzazione di un ristretto nucleo di lavoratori che le aziende vogliono fidelizzare attraverso investimenti e percorsi formativi privilegiati mentre per la maggior parte dei lavoratori si traduce solo nella disponibilità ad adattarsi ai lavori più vari e meno remunerativi.

 

Quasi la metà delle forza di lavoro più giovane arriva oggi solo alla scuola dell’obbligo e quindi ha una scarsa formazione. Queste persone sono tutte potenzialmente e gravemente a rischio di povertà, sono facilmente sostituibili dalle macchine e superati i 40 anni facilmente diverranno esuberi, perché non saranno capaci di stare al passo dell’innovazione tecnologica e difficilmente potranno riconvertirsi. È la ferrea legge del mercato che spreme i lavoratori come limoni quando ne ha bisogno e poi quando non servono più li getta nell’immondizia.

E non può essere altrimenti, perché la competizione internazionale costringe le imprese a far variare i costi in stretta relazione con l’andamento dei mercati e quindi da una parte ad impiegare esattamente la quantità di forza lavoro utile alla produzione in un dato momento temporale e dall’altra ad adottare sempre più sofisticate strategie organizzative. Ne consegue una forte articolazione del mercato del lavoro ed una crescente precarizzazione a fronte di un’alta intensità di sfruttamento.

La flessibilità è una galassia dentro la quale si trovano svariate forme di lavoro: il tempo parziale, il tempo determinato, l’interinale, le collaborazioni coordinate e continuative, le consulenze e quelle professioni che non sono riconducibili agli albi professionali (consulenti di marketing, figure a basso profilo professionale) pony express, venditori porta a porta, ma anche i ragazzi che puliscono le latrine al McDonald.

Tutte occasioni di lavoro che vivono e muoiono a seconda del pulsare positivo o negativo di questo o quel segmento di mercato.

 

Il governo fa solo il suo sporco lavoro, elabora gli strumenti migliori per permettere ai padroni di gestire più razionalmente questa merce (la forza lavoro) disponibile sul mercato in abbondanza e a buon prezzo …..

 

Rsp (individualità Anarchiche)