STATO DI POLIZIA 4° parte: IL FASCISMO DI RITORNO (1943-1960)

STATO DI POLIZIA 4° parte:

IL FASCISMO DI RITORNO (1943-1960)

Uno dei primissimi atti legislativi del governo Badoglio, il governo dei 45 giorni, fu la “concessione delle stellette” al corpo di PS, ovvero, la sua integrazione nelle forze armate (d.l. 31/7/1943, n° 687), un gesto significativo che testimoniava una precisa volontà di gestione della politica dell’ordine pubblico con la maniera forte. Un decreto dell’anno seguente restituiva all’organismo il nome primigenio di Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza (d.Ut. 2/11/1944, n° 365). In una situazione politica confusa oltre che assai precaria (in cui oltre alla PS e ai carabinieri, organismi peraltro scompaginati, specialmente i secondi, entravano in azione numerose polizie più o meno private e segrete, tutte in reciproco contrasto e facenti un regolare uso della tortura nei loro ‘trattamenti’), l’esigenza del governo provvisorio era quella del rafforzamento della PS che era la forza di polizia conservatasi più intatta, giacché a differenza dei CC, ‘arma’ dell’esercito, non aveva partecipato agli eventi bellici. Sulla polizia poi, si poteva fare maggiore affidamento in ragione del suo tenersi relativamente ‘al di fuori della mischia’ al fine di ritardare, se era proprio impossibile evitare, gli orrori della guerra civile. La scelta di stare in mezzo alle parti in contesa, fu dovuta al fatto che “c’erano ragioni per accettare la tesi monarchica e la contraria, la fascista e l’antifascista, la tesi della fedeltà all’Asse e quella favorevole agli Alleati” mentre i carabinieri si erano in certa parte schierati dalla parte degli anglo-americani, per spirito di fedeltà alla monarchia e non per solidarietà con la resistenza, verso la quale svolsero anzi funzione di freno e di controllo. La PS sarebbe passata così dai 17.565 uomini nel 1938, ai 25.059 nel 1942, ai 31.900 nel 1943, ai 51.367 nel 1946. Nel 1945 (d.l.lt. 13 febbraio, n° 43) nelle file della PS era assorbito anche il personale del famigerato corpo della ‘polizia dell’Africa italiana’ (PAI), polizia tra le polizie adusa ai metodi più biecamente razzisti e colonialisti, guidata da alcuni tra i peggiori elementi del regime fascista. Ma nella PS entrarono anche molti partigiani, mentre i CLN riuscivano a nominare e a insediare numerosi prefetti e questori e sindaci nelle zone liberate; con la fine dell’AMG (il governo militare alleato) tutti i funzionari di nomina resistenziale vennero posti davanti alla scelta ricattatoria, accettata da comunisti e socialisti (ministro dell’interno era il ‘socialista’ Romita), di entrare nel servizio di carriera, e quindi di farsi passivi esecutori delle disposizioni che sarebbero loro venute dall’alto e che certamente non sarebbero state le più gradite ad eseguirsi per dei ‘combattenti della libertà’; oppure di abbandonare le cariche conquistate armi in pugno: la quasi totalità scelse la seconda via, tanto che, al 1/1/1947, si contavano solo 8 prefetti su 133 immessi in carriera dopo la caduta del fascismo. Alla fine del 1946 un nuovo provvedimento, in apparenza tecnico-amministrativo, purgava anche a livello di truppa la polizia dai ‘rossi’. I provvedimenti del decreto (entrato in vigore il 27/12/1946) formalmente parlavano di ‘riorganizzazione’ del corpo delle guardie di PS, ma si trattava, come si esprime una fonte ufficiale, di “ricomporre, nell’assoluta legalità, le file di un organismo che, per cause di forza maggiore, aveva perduto la fisionomia di una forza ordinata ed inquadrata su adeguate basi normative. A sostituire i poliziotti partigiani vengono richiamati in servizio vecchi arnesi sui 60, quasi tutti pratici di manette, ma che sanno pochino a leggere e scrivere, e quel che è peggio vengono presi in servizio elementi della PAI, vengono riassunti i repubblichini, i fucilatori, i collaborazionisti, persino quelli che sono stati finora in galera per crimini fascisti e che l’amnistia ha rimesso in circolazione con relativi assegni arretrati”.

Ancora una volta lo strumento precipuo della ricostruzione del regime di polizia fu il prefetto. L’assemblea costituente (comitato sul decentramento) aveva votato all’unanimità la soppressione dell’istituto prefettizio. Ma “i prefetti non furono soppressi subito, non furono soppressi in seguito, non saranno soppressi mai più”, almeno come tutori supremi dell’ordine e della sicurezza pubblica in provincia. Fu appunto questo, d’altronde, il ruolo che dell’istituto i nuovi governi repubblicani furono subito portati ad accentuare, nel clima quarantottesco dominato dalla convulsa paura del comunismo e dell’anachismo, che la chiesa e la DC inculcavano in larga parte delle masse, soprattutto piccolo-borghesi, e di fronte al quale la strategia del gruppo dirigente del PCI, rigidamente chiusa ad ogni possibilità rivoluzionaria, si rivelava assolutamente impotente.

Agli inizi degli anni ’50, nel prefetto si rifletteva il regime restaurazionista democristiano. Il maggior requisito per giudicare la capacità professionale del prefetto, divenne la sua abilità a mantenere con fermezza il controllo della sua provincia, di dominare gli agitatori anarchici e di sinistra, distribuendo equamente minacce e repressioni violente. Il 2° dopoguerra richiama per troppi versi il 1°: come nel periodo 1918-’20, tra il ’45 e il ’48 le masse chiedono “diritti”, l’atmosfera politica del paese è surriscaldata dalla tensione sociale crescente, e, mentre si ricostruiscono gli apparati della “prevenzione” appresi dal fascismo (le spese per i confidenti di polizia passano da 8 milioni, nel 1948, a 112 milioni, nel 1949!), la repressione, intesa come attacco brutale contro il movimento operaio (dunque non come la intendeva uno Zanardelli quasi un secolo avanti), diviene la nuova tattica del governo di uno stato che è irrimediabilmente rimasto poliziesco. “Ignoranza e polizia” sono le armi decisive del nuovo regime. L’attacco contro contadini, operai, studenti e tutti i militanti del movimento di classe che l’Italia degasperiana consuma in questo scorcio di anni a cavallo tra le due metà del secolo, ripete, in una certa misura, l’attacco che polizie e fascismo squadrista scatenarono tra il 1921 e il ’24 contro socialisti, comunisti, repubblicani e anarchici di allora; cosi come la riorganizzazione dei reparti celeri della PS, operata proprio in questi anni del primo dopoguerra, ricorda, nei fini perseguiti dal governo come nei metodi adottati dal “corpo mercenario,” la costituzione della guardia regia nel 1919.

 

Le imponenti lotte sociali che dalle città e dalle campagne scuotono il paese vedono ripetuti scontri, anche a carattere di massa, tra forze dell’ordine e contadini, operai, popolani; la polizia non è ancora ‘riorganizzata’ e spesso subisce l’iniziativa dei manifestanti, come a Catanzaro (gennaio 1946), dove la folla assale la prefettura e l’esattoria; ad Andria (marzo), dove la popolazione tiene per alcuni giorni in mano la città, avendo preso in ostaggio CC e agenti; a Caccamo (agosto), dove una sorta di battaglia tra popolazione e carabinieri ha come esito una dozzina di morti e un centinaio di feriti; a Roma (ottobre), punto culminante di questa fase di agitazioni a carattere insurrezionale, dove alcune migliaia di disoccupati e di lavoratori edili minacciati di licenziamento, assaliti da carabinieri a cavallo e da reparti celeri, reagiscono ingaggiando uno scontro con le forze dell’ordine che vedrà queste ultime retrocedere, lasciando via libera ai manifestanti che assalgono il Viminale riuscendo a penetrare fin nello studio di De Gasperi, che si salva fortunosamente.

Ma il 1946 rappresenta una trincea arretrata della linea padronale-governativa; solo dal 1947 in poi (anno di nascita dei reparti ‘celeri’) eliminati gli ‘alleati’ scomodi del PCI, organizzata la scissione saragattiana di

Palazzo Barberini preannuncio di quella, decisiva, dei sindacati cattolici e socialdemocratici dalla CGIL che sarebbe avvenuta poco dopo e, con tali garanzie, ottenuto l’appoggio incondizionato degli americani, la repressione e l’assassinio di lavoratori divengono premeditata norma e programma di governo. I grossi capitalisti, ritornati nuovamente al comando e ancora pieni di paura, impongono la linea politica del terrorismo di classe. La ‘celere’, la più potente organizzazione di polizia, è lo strumento principe della repressione; il ministro Scelba ne è il protagonista. Nel gennaio del 1948 un arruolamento speciale assumeva temporaneamente in servizio 18.000 guardie di PS, 2.000 sottufficiali e 300 ufficiali, sulla base di requisiti straordinariamente lati. Una circolare del capo della polizia dell’8/7/1947 indirizzata a tutti i questori della repubblica, a nome del ministro, vietò ogni comizio o assemblea all’interno delle fabbriche. I prefetti proibiscono qualsiasi forma di assembramento nelle piazze, sciolgono con la forza ogni riunione non autorizzata, impediscono qualsiasi forma di critica al governo e al ministro dell’interno in particolare (giungendo sino al ridicolo, secondo il buon costume fascista), sciolgono tutta una serie di amministrazioni comunali e provinciali rette dalle sinistre “per ragioni di ordine pubblico“. Cominciano arresti in massa dei militanti del movimento, gli stessi parlamentari comunisti e socialisti non vengono risparmiati: 172 sono i procedimenti penali intrapresi contro i parlamentari del PCI, 37 contro quelli del PSI, accusati ora per fatti relativi alla lotta partigiana, ora per “attentati all’ordine costituito”, come istigazione a delinquere (per aver esclamato un parlamentare, davanti allo scioglimento violento di un comizio, che i cittadini possono riunirsi “dove e quando avessero voluto non essendo necessario alcun permesso”) o istigazione a disobbedire alle leggi. Rinasce altresì il tristo fenomeno dello squadrismo agrario, finanziato e organizzato dai proprietari terrieri e appoggiato dalle forze dell’ordine: Il nemico principale è infatti in questo periodo il, risorgente movimento contadino, che assume, negli anni tra il 1945 e il 1950, il valore di continuazione storica nel mezzogiorno della resistenza al nazifascismo, fenomeno pressoché esclusivamente settentrionale.

Davanti alla politica del binomio Scelba -De Gasperi (come non rammentarsi di altre ‘coppie’ divenute famose nel mantenimento dell’ordine pubblico? Depretis-Nicotera, Mussolini-Bocchini), fondata sull’abuso e sulla violenza, la costituzione cominciò ad apparire a qualche mente illuminata quello che effettivamente era: “una pura e semplice esercitazione accademica che 500 sciagurati costituenti decisero di scrivere per loro passatempo, ma di cui non si tiene nessun conto!” Significativa la frase di un capitano dei carabinieri che alla domanda postagli nel corso di un dibattimento per uno dei tanti processi montati dallo scelbismo, se non avesse mai sentito nominare la costituzione, rispose: “Nessuno mi ha mai detto che io debbo conoscere la costituzione. Io conosco il codice penale e le leggi di polizia”. Lo stesso Scelba, in un’intervista concessa al Corriere della Sera l’1/9/1949, aveva precisato senza reticenze: “Quando divenni ministro dell’interno, mi resi subito conto che per fare la dittatura in Italia non occorrono leggi speciali; basta interpretare in un dato modo quelle vigenti.” Ciononostante il Partito comunista rimaneva arroccato sulla linea della difesa ad oltranza della costituzione, linea che i suoi dirigenti non furono disposti ad abbandonare neanche in seguito all’attentato del 14/7/1948 a Palmiro Togliatti. Intanto crescono gli effettivi di polizia (nel 1948 la PS contava 68.378 uomini, nel 1949, 75.604; mentre gli organici dei CC e della guardia di finanza raggiungono, le 180.000 unità complessive, si dilatano i bilanci della sicurezza pubblica (PS+CC: dai 9:8 miliardi del 1944 – ’45 ai 79,3 miliardi del 1947-’48, ai 93,3 miliardi del 1949-’50).

Tre diverse fonti danno queste cifre, sulle persone uccise da parte delle forze di polizia nel corso delle manifestazioni di piazza, delle occupazioni di terre, degli scioperi rivendicativi e politici: 60 morti nel periodo 1947- ’50; 62 morti nel periodo 1948-’50; 75 morti nel periodo 1948-’54.

La celere, è una creazione postbellica basata su una tradizione fascista e il loro metodo di lavoro è stato usato dalla polizia scelbiana. I suoi uomini credono, obbediscono, combattono. La sua funzione secondo le direttive segrete è quella di ‘garantire l’ordine pubblico, allo stato presente e in prospettiva’. Questa formula consente la più comoda interpretazione. Essa organizza ‘preventivamente’ nei minimi particolari le cariche e le sparatorie; anche ‘preventivamente’ vengono preparate ad uso della stampa governativa e indipendente le versioni relative alle armi in possesso dei lavoratori, versioni che dovranno poi giustificare l’uso delle armi da parte della polizia. La politica dell’ordine pubblico dello scelbismo: la repressione come sublimazione della prevenzione.

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Due episodi, meglio di ulteriori argomenti, serviranno a esplicitare la prassi poliziesca dello scelbismo. Il 1° è esemplarmente illustrativo della rabbiosa reazione padronale al grandioso moto di occupazione delle terre, che riuscì a strappare decine di migliaia di ettari all’assenteismo dei baroni agrari: Melissa, 30/10/1949. All’alba di quella domenica un nutrito gruppo di contadini, accompagnati dalle famiglie, si incolonna verso le terre incolte del feudo Fragalà, proprietà del marchese Berlingieri: 21.000 ettari di incolto cespuglioso. Il marchese, soltanto una settimana avanti, aveva espresso, nel corso di un incontro col prefetto della provincia di Catanzaro, la propria opinione, chiara e definitiva, che non poteva che essere accolta come un ordine dal rappresentante della pubblica autorità: “Sulle mie terre”, aveva detto il marchese “quei pezzenti non ce li voglio.” Ma i pezzenti calabresi del territorio circumvicino a Melissa quell’ultima domenica di ottobre si dirigono decisi e semplici, con la coscienza di chi è nel suo diritto, proprio sulle terre Berlingieri. Vi arrivano dopo 3 ore di marcia, e subito si pongono al lavoro, con la gioia di chi suda sulla sua terra, con la fermezza che deriva loro da una miseria antica. I contadini di Melissa iniziano senza frapporre indugi a preparare il terreno per il dissodamento. Dopo una breve pausa a metà della giornata, nel primissimo pomeriggio il lavoro riprende. Sono le 14 quando un ragazzo si precipita giù dalla collina annunciando “la celere!” I contadini continuano tranquilli nella loro opera; dirà un bracciante dopo la tragedia: “Quando ho visto i poliziotti mi sono sentito tranquillo. Temevamo solo l’aggressione di qualche campiere del barone, qualche provocazione. Ora la polizia ci difenderà, mi sono detto”. I camion della celere aggirano la collina, e poco dopo un centinaio di poliziotti arrivano alle spalle dei contadini, ricurvi sulla terra. “Gettate le armi!” intima il tenente che guida il reparto. Un attimo dopo i suoi agenti ubriachi del vino appena abbondantemente tracannato in un’osteria lungo il cammino aprono il fuoco coi mitragliatori e le bombe a mano. Un ragazzo di 15 anni, Giovanni Zito, e un bracciante di 29, Francesco Nigro, muoiono subito; altre 15 persone rimangono sul terreno, tutte colpite alle spalle; Angelina Mauro, 25 anni, morirà dopo un’agonia durata 9 giorni. Non vale nemmeno la pena di raccontare lo sviluppo successivo della strage di Melissa (completata, aggiungiamo, da una brutale caccia prolungatasi nella campagna circostante per un’ora, nella quale gli sbirri si accanirono contro gli anziani, i bambini, i feriti), con le ciniche versioni della polizia, accreditate dal ministro (“I contadini ci hanno aggredito con lancio di bombe a mano che ha provocato feriti tra gli stessi dimostranti”), e con la montatura imbastita attraverso la corruzione di un medico (al fine di ottenere un certificato attestante una “ferita provocata da arma da fuoco” in un agente), e, infine, conclusa, inutile specificarlo, dall’impunità per gli assassini. Lo stesso piano militare usato al G8 di Genova nel 2001 per difendere i potenti, che quel giorno decidevano non solo i piani di business del capitale globale, ma anche a chi toccava il ruolo principale della sicurezza europea; ecco il motivo per cui è scattata la trappola degli sbirri, con metodi fascisti e sleali, studiati a tavolino per terrorizzare migliaia di manifestanti: hanno picchiato e insultato donne, anziani e bambini e torturato e umiliato i giovani, fino ad uccidere il ventenne Carlo Giuliani. E poi il solito alone di impunità secolare: dopo i processi, tutti assolti.

Il 2° episodio storico illumina l’attacco antioperaio portato avanti da Scelba e i suoi uomini: Modena, 9/1/1950, è il corrispettivo esatto di Melissa; al Sud i poliziotti assalgono i contadini schierandosi dalla parte degli agrari, al Nord attaccano gli operai schierandosi al fianco degli industriali. Il padrone questa volta è l’industriale Orsi, titolare delle omonime fonderie. In seguito alla minaccia di licenziamento di 560 operai, tra i quali è compresa la componente politica e sindacale della fabbrica. Le maestranze nell’ultimo mese del ’49 danno vita a una dura e combattiva lotta; per battere la resistenza operaia Orsi attua la serrata. Il 9 gennaio, a un mese dall’inizio della serrata, a Modena viene dichiarato lo sciopero generale a sostegno della lotta operaia. Il lungo corteo di lavoratori si dirige verso le fonderie; un impressionante schieramento di polizia lo attende. Gli operai si fermano davanti ai cancelli presidiati dalla forza pubblica. (Quale ironia definire pubblica una forza armata che funziona soltanto come presidio del potere delle classi dominanti: a Modena la polizia difendeva l’illegale serrata di un padrone e aggrediva i lavoratori esercitanti un legittimo diritto di sciopero). Non appena il corteo si arresta, la polizia incomincia a far fuoco; cadono i primi morti, i primi feriti. Un gruppo di parlamentari e sindacalisti si precipita in questura per far cessare il massacro; li attendono le due supreme autorità di pubblica sicurezza. Il prefetto assale gli arrivati accusandoli, in quanto “caporioni” degli scioperanti, dell’uccisione di 2 uomini della forza “pubblica” (naturalmente si tratta di una volgare provocazione) e conclude minaccioso: “Ritirate immediatamente tutti i vostri dalle fonderie, o qui succederà una strage! Abbiamo tante forze da sterminarvi tutti!”; “sarà un macello”, sentenzia il questore. La commissione non ha il tempo di ritornare: il macello è già avvenuto. Agli ordini di un vicequestore imbizzarrito, che da una camionetta segnala ai suoi uomini quali sono i “facinorosi” su cui indirizzare i colpi delle armi, mentre altri agenti appostati sui tetti delle case si divertono a giocare al tiro a segno, le forze dell’ordine capitalistico ammazzano 6 operai e ne feriscono 50. Per evitare la diffusione di notizie che precedano la versione ufficiale degli “scontri”, il ministro dell’interno dispone il blocco della città: il comunicato della questura, accolto naturalmente dal ministro e dalla stampa “indipendente”, affermerà che “alcune migliaia di operai assaltavano le forze di polizia presidianti gli stabilimenti, usando armi da fuoco, bombe a mano, martelli, sassi e bastoni”. Una versione davvero plausibile, codesta, se si pensa che un tale “assalto” operaio contro la polizia aveva come frutto la contusione di 3 agenti! Con spirito meno sofistico la piazza, individuando in Mario Scelba l’espressione corporea del terrorismo borghese contro gli operai in quegli anni, cantava: “ministro dell’interno è un certo Mario Scelba che spara sulla folla e poi prega il padreterno…”.

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Il problema fondamentale del capitalismo italiano negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra mondiale era stato quello della ricostruzione del ciclo economico del capitale; negli anni ’50 il problema è l’incremento della produttività, il quale sfocerà nel “miracolo economico” del triennio 1960-’62. “L’interesse generale del sistema alla fine degli anni ’40 appare diverso dall’interesse generale della seconda metà degli anni ’50: prima occorreva procedere in profondità liberandosi dei rami secchi, poi sembra più necessario procedere in estensione su tutto il sistema, magari recuperando le zone ‘arretrate’, tutelando la piccola industria, facendo concessioni al settore contadino e in una certa misura alla classe operaia”. Lo scelbismo, che può essere definito come la politica dell’ordine pubblico sotto il centrismo, vive il suo periodo d’oro negli anni in cui si imposta la riorganizzazione produttiva dell’economia del paese (gli anni che vanno, grosso modo, dalla rottura del tripartito [1947] alla sconfitta della “legge truffa” [1953]): in questa fase di ricostruzione e riorganizzazione, di ripresa e rilancio, il sistema borghese si trova nell’esigenza di scoraggiare la classe operaia dalle pretese ‘eccessive’, di dissuadere il PCI da eventuali velleità diverse dal ruolo che esso stesso peraltro ha abbondantemente dimostrato di voler ricoprire, di capofila dell’opposizione di sua maestà. Di qui la linea dura, la polizia come unico mezzo di dialogo con le classi subalterne, la strategia dell’attacco contro il movimento contadino, la repressione come estremo sviluppo consequenziale dell’attività di prevenzione. La sconfitta della legge truffa segna l’avvio del “declino politico del centrismo come formula parlamentare quadripartita e metodo di governo”; De Gasperi definisce la DC un “partito di centro che guarda a sinistra”: nascono i piani che sfoceranno un decennio più tardi nel centrosinistra. Ma la strategia morbida è per il momento solo una meta anche se la fase terroristica dello scelbismo accenna a scemare, per cedere il passo a una più ‘normale’ attuazione della teoria preventiva, il bilancio di 19 morti operai per mano delle forze dell’ordine nel periodo 1951-’59 parla da sé. La costante della storia italiana contemporanea è il fuoco della polizia contro i lavoratori e i civili. I “luttuosi incidenti” dovevano venire considerati dall’opinione pubblica alla stregua di eventi inevitabili e iscritti nell’ordine delle umane cose democristiane: a tal fine tendevano ovviamente i comunicati e gli interventi di parte filogovernativa.

Mario Scelba lascia il ministero di polizia nel 1951; Fanfani e Andreotti gli succedono per 2 brevi gestioni ‘ordinarie’; quindi è di nuovo Scelba alla guida del Viminale: ma un ‘uomo nuovo’ bussa alle porte. Egli, in un discorso tenuto il 15/8/1955 a Badia Prataglia (Arezzo), vale a dire poco più di un mese dopo essersi insediato al ministero, si presenta con queste parole: “Una polizia moderna è al servizio dello Stato nella sua continuità di tradizioni e di scopi e la fatica che ogni giorno essa compie è nobilissima. Difendere le libere istituzioni rafforzare gli strumenti della difesa, aumentare il margine di sicurezza della democrazia, garantire i cittadini dell’effettivo esercizio della libertà. Una libertà che non deve essere impedimento all’esercizio della libertà altrui, ma armonia di diritti e di doveri, rispetto sostanziale di tutte le leggi, soggezione ideale e sincera ai superiori interessi della comunità nazionale: in una parola sola, alla Patria”. L’uomo che con tali nobili espressioni si insediava nel suo ministero era Fernando Tambroni. Due mesi soli più tardi il linguaggio del nuovo ministro dell’interno è radicalmente mutato: scoprendo le proprie carte nel discorso pronunciato alla camera il 15 ottobre egli afferma: “Ogni tentativo di minaccia alle istituzioni (l’ho già detto, ma mi pare che nel nostro Paese vi sia molta gente con l’ovatta nelle orecchie), e quindi di pericolo per la libertà, sarà decisamente contenuto e, ove sia necessario, senza esitazioni, e per il bene della collettività decisamente represso.” Tambroni era un fascista (aveva anche ricoperto il grado di ‘centurione’ della milizia), con in più una forte mania di persecuzione e un arrivismo personale che passava al di sopra di tutto; quale fosse la sua strategia del ‘contenimento’ e della ‘prevenzione’ si seppe con abbondanza di particolari solo nel 1960, quando le manovre anticostituzionali di Gronchi, la colpevole acquiescenza della DC, le pressioni della destra reazionaria, portarono alla presidenza del consiglio l’ex centurione dell’invitta e gloriosa milizia, il quale in 4 giorni avrebbe scatenato la polizia sulle piazze del paese ottenendo il brillante risultato di 12 morti. Ma prima degli omicidi del luglio 1960, che avvennero con l’avallo del ministro dell’interno dell’epoca, il democristiano di destra Spataro, ma a cura del capo del governo, il nostro uomo nella sua conduzione del Viminale aveva istaurato un metodo di lavoro e una prassi di polizia che riprendeva pari pari i più tipici sistemi ‘preventivi’ del regime fascista. Il neoministro infatti creò un “ufficio psicologico“, cui prepose due suoi sgherri ,e un ‘ufficio speciale di polizia politica’, affidato all’ex questore di Trieste, De Nozza che alcuni anni dopo si sarebbe distinto nel guidare le forze dell’ordine nella battaglia di piazza Cavour contro il movimento studentesco romano. Ruggero Zangrandi su Paese sera, definendo il De Nozza uomo “assai intrinseco dei servizi segreti americani” richiamava come modello di paragone l’OVRA; mentre Gianni Corbi sull’Espresso, sempre nel luglio ’60, dopo la caduta di Tambroni, scriveva che con quelle sue primissime iniziative Tambroni “sperava di riuscire a creare una polizia simile al servizio segreto che negli USA è diretto da Allen Dulles”. Il golpe del ‘piano solo‘ del luglio ’64, l’inchiesta sul SIFAR, fa capire meglio il senso delle iniziative tambroniane, che meritano tutta la considerazione che va tributata all’opera degli antesignani rispettosi delle tradizioni dei padri. Servendosi di quegli speciali ‘uffici’, Tambroni riuscì ad acquistare nell’amministrazione della pubblica sicurezza, un potere enorme di tipo personale basato su alleanze di uomini, intrighi, scambi di ‘favori’: doveva davvero trattarsi di un potere significativo se nel corso della crisi del luglio ’60 lo stesso Moro, segretario della DC, si sentiva “minacciato nella sua persona” e ricorse, in via cautelativa, alla protezione dell’arma fedelissima, la quale aveva si sparato sui cittadini proprio come la PS, ma non condivideva “l’impostazione data dal Viminale ai fatti di luglio”. Inoltre l’uso spregiudicato della polizia per pedinare, spiare, schedare avversari politici e gli stessi colleghi di partito coi quali aveva rapporti di rivalità, avevano posto Tambroni in una posizione di sicurezza da eventuali attacchi politici, dandogli in mano un abbondante materiale di ricatto e di pressione, cosa che dovette non poco servirgli a tenerlo in sella in quei difficili momenti della ‘coalizione imperfetta’ coi missini.

Gli avvenimenti verificati si nel mese di luglio del 1960 sono troppo noti perché si debbano qui rievocare particolareggiatamente: gli scontri di Genova (dove una mobilitazione decisa e cosciente della popolazione riuscì ad avere la meglio sulle forze di polizia, sconfiggendo fascisti e governativi); i morti di Licata, Palermo e Catania (qui Salvatore Novembre diciannovenne operaio edile è abbattuto a colpi di manganello: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno, due, tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione. Ma Salvatore non è ancora morto: alcuni sbirri ne prendono il corpo martoriato ,e lo trascinano fino al centro della piazza dove si svolgono gli incidenti: deve servire da esempio e da orribile monito alla cittadinanza catanese: cosi finiscono gli attentatori all’ordine democratico e tambroniano. Alcuni CC rimangono a guardia del corpo che va lentamente diventando un cadavere, impedendo, mitra alla mano, a chicchessia di avvicinarsi e prestare soccorso al giovane: egli finirà dissanguato”; le cariche, rimaste famose per la tecnica multipla (con le camionette, i cavalli, gli idranti, e una coscienziosa caccia al manifestante), di Porta San Paolo a Roma. Tuttavia, il massacro di Reggio Emilia del 7 luglio, quando carabinieri e celerini spararono ininterrottamente per 40 minuti ammazzando 5 persone, merita di essere brevemente raccontato, almeno nella sua fase saliente; lo facciamo con le parole di Piergiuseppe Murgia, che al luglio 1960 ha dedicato un intero libro: “… e poi, d’un tratto, ancora tra il fumo accecante, si sente lo sgranare degli spari. La polizia spara. Spara sulla folla. La gente per un attimo si ferma, stupita. Non sa rendersi conto. Sparano da ogni parte della piazza. Sparano a distanza ravvicinata. Sugli uomini. Sparano senza sosta. Il primo a cadere è Lauro Ferioli, 22 anni, padre di un figlio. Ai primi spari, si è lanciato incredulo verso i poliziotti come per fermarli; gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto, gli sparano sulla faccia. Dirà un ragazzo testimone: ‘Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra. lo mi trovavo proprio alle sue spalle e l’ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue. Intanto l’operaio Marino Serri che piangeva di rabbia si è affacciato oltre l’angolo della strada per protestare gridando: ‘Assassini, assassini!’ Un’altra raffica lo ha subito colpito e anche lui è caduto.’ Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni, muore poco dopo. Un proiettile l’ha ferito all’addome. ‘Ferito, cercava di tenersi su, aggrappandosi a una serranda. Un altro, ferito lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato su tutti e due. Emilio Reverberi, 30 anni, operaio, ex partigiano: lo spezza in due una raffica di mitra. L’operaio Afro Tondelli, 35 anni, viene assassinato freddamente da un poliziotto che s’inginocchia a prendere la mira in accurata disposizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Afro Tondelli dice: ‘Mi hanno voluto ammazzare: mi sparavano addosso come alla caccia’. I feriti cadono a mucchi.”

 

Rsp (individualità Anarchiche)