Seveso 1976: avide multinazionali dietro a disastri ecologici e tumori

Seveso 1976: i giochi sporchi delle multinazionali che si arricchiscono e inquinano l’ecosistema senza mai pagare i danni

A Seveso il 10 luglio 1976 nel locale stabilimento chimico dell’ICMESA una valvola di sicurezza di un reattore esplose provocando la fuoriuscita di alcuni chili di diossina nebulizzata. Il vento disperse la nube tossica nella Brianza. Dopo 4 giorni dall’incidente iniziarono a morire gli animali: galline, uccelli, conigli. Le foglie cadevano e gli alberi in breve tempo seccarono. Solo dopo 9 giorni il pretore decreta la chiusura dello stabilimento…

La diossina è considerata la più tossica tra i composti organici!

Ma facciamo un po’ di storia….

Il 29/11/1945 l´ICMESA (Industrie Chimiche MEridionali S.A. con uffici e direzione a Milano) presentò al Corpo del Genio Civile di Milano domanda per l´autorizzazione a costruire un nuovo stabilimento per la produzione di farmaceutici in un terreno di sua proprietà ubicato nel territorio del Comune di Meda. L´ICMESA non era un´impresa di nuova costituzione. Le sue origini risalivano infatti al 1924 quando la società Industrie Chimiche K. Benger e C.S.A. (già Industrie Chimiche Meridionali K. Benger e C.) mutò la sua ragione sociale in quella di ICMESA. La sede e lo stabilimento della fabbrica erano a Napoli e l´attività si fondava sulla fabbricazione e sul commercio di prodotti aromatici sintetici, di prodotti intermedi (per l´industria farmaceutica e per quella dei coloranti organici) e di prodotti di base per l´industria chimica.

Nel 1947 l´assemblea degli azionisti, pur mantenendo la sede sociale a Milano, deliberò di modificare la denominazione della società, trasformandola in ICMESA S.A., Industrie Chimiche Meda, Società Azionaria. Sempre nel 1947, terminati i lavori di costruzione della fabbrica, l´ICMESA iniziò concretamente la propria attività a Meda.

Gli anni ‘50 e ‘60 videro le dimensioni della fabbrica ampliarsi costantemente. La Givaudan & C. di Vernier-Ginevra rimase sempre la principale azionista della società.

Nel 1963 la multinazionale Hoffman-La Roche, con sede a Basilea, acquistò la L. Givaudan & C. e conseguentemente, prima attraverso la Givaudan e poi figurando in prima persona fra gli azionisti, divenne proprietaria dell´ICMESA.

Già dal 1948 l´ICMESA aveva sollevato le proteste della popolazione di Seveso in merito ai gas e agli odori provenienti dal torrente Certesa (o Tarò) che erano da attribuirsi anche agli scarichi della fabbrica di Meda.

Il 2 maggio 1953, l´ufficio veterinario del Comune di Seveso accertò un´intossicazione di pecore a causa degli scarichi dell´ICMESA.

Il 2 maggio 1962, il sindaco di Meda, Dozio, il 5 aprile aveva chiesto alla società di essere informato sull´evolversi della situazione degli scarichi industriali, avvertì l´ICMESA che nell´ultima seduta del Consiglio Comunale alcuni consiglieri avevano rilevato che molto spesso a nord dello stabilimento si sviluppavano incendi di materiali di rifiuto che provocavano “nubi fumogene irrespirabili” dannose per la salute pubblica.

Il problema dell´inquinamento del torrente Tarò fu sempre al centro dell´attenzione della Provincia in quanto, nuovamente nel 1965, le analisi effettuate rilevarono la non accettabilità delle acque sia dal punto di vista chimico, perché altamente inquinate, sia dal punto di vista biologico giacché definite “tossiche ad alta tossicità”. Necessitava dunque un miglioramento dell´impianto di depurazione che fu imposto all´ICMESA nel novembre del 1965. Un sopralluogo effettuato nel 1966 appurò che, nonostante le modifiche apportate, l´impianto continuava a inquinare l’ecosistema.

Il 18 dicembre 1969 l´ufficiale sanitario Sergi, affermò che l´ICMESA rappresentava “una notevole grave sorgente per l´inquinamento” sia liquido che gassoso. Sergi asserì inoltre che “l´azione malefica di tale inquinamento” non si limitava alla zona circostante lo stabilimento, ma attraverso la falda acquifera superficiale, l´atmosfera e a mezzo del torrente Tarò, questa si estendeva “a zone anche lontane dalla sorgente inquinante”. “Data la gravità delle risultanze premenzionate” l´ufficiale sanitario chiese al sindaco di Meda di emettere un´ordinanza “ai sensi dell´art. 217 del T.U.LL.SS. 27.7.1934, n. 1265″ con la quale si doveva imporre all´ICMESA “l´adozione di provvedimenti efficaci, stabili e continuativi, atti a rimuovere i molteplici inconvenienti constatati”.

Alla fine del 1974 il direttore tecnico dell´ICMESA, Herwig Von Zwehl, fu denunciato alla magistratura per “avere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso corroso ed adulterato acque sotterranee destinate alla alimentazione prima che le stesse fossero attinte, rendendole pericolose per la salute pubblica, tramite lo scarico di fanghi in una pozza perdente.”

Il 5 settembre 1975, a seguito di un nuovo sopralluogo, la Provincia confermò le accuse di inquinamento delle acque sotterranee nei confronti della fabbrica di Meda. Nonostante il rapporto della Provincia, il 15 giugno 1976 Herwig Von Zwehl fu assolto per “insufficienza di prove”…..

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Il 25 marzo 1980, dopo una trattativa iniziata da Golfari e durata oltre un anno, il sottosegretario agli interni Bruno Kessler e il nuovo presidente della Giunta Regionale Guzzetti annunciarono di aver raggiunto un accordo con la Givaudan per far sì che la società di Vernier-Ginevra si assumesse l´onere di pagare la somma di Lire 103 miliardi e 634 milioni per il “disastro di Seveso”. La transazione escludeva i danni imprevedibili che fossero emersi successivamente e i danni subiti dai privati che la multinazionale elvetica continuò a liquidare tramite il proprio ufficio di Milano. La transazione ovviamente fece venire meno il procedimento giudiziario intentato dalla Regione contro l´industria chimica di Meda che era agganciato al procedimento penale avviato dalla Procura della repubblica di Monza all´indomani del disastro. L’accordo massomafioso avrebbe in qualche modo favorito la Givaudan evitandole un processo giudiziario per inquinamento e disastro ambientale con danni irreversibili per la salute dei cittadini e degli animali….

Come per gli altri enti coinvolti nella vicenda anche il Comune di Seveso, ad avvenuta definizione dell´atto transattivo, assicurò la rinuncia a qualsiasi ulteriore richiesta ed azione, sia in sede penale che in sede civile.

Tre giorni dopo, il 13 settembre, il sindaco di Seveso e il presidente del Consiglio d´amministrazione della Givaudan Jean Jacques de Pury firmarono a Losanna la transazione.

Il 2 giugno 1977 il Consiglio Regionale della Lombardia approvò i 5 programmi di intervento per bonificare il territorio inquinato. La realizzazione fu affidata all´Ufficio Speciale per Seveso. Abbandonata l´idea di costruire un forno inceneritore per eliminare il materiale inquinato, tra il 1981 e il 1984, furono costruite due vasche impermeabilizzate dove depositare il materiale contaminato. La capacità della vasca di Seveso è di 200.000 m³, mentre la capacità di quella di Meda è di 80.000 m³.

Nel 1983 si decise di progettare, in quella che era la Zona “A” (“A1″-”A5″), un parco, il futuro Bosco delle Querce. I lavori ambientali e forestali iniziarono nel 1984 e terminarono nel 1986. Alla fine del 1986 la cura del parco fu affidata all´Azienda Regionale delle Foreste (ARF).

La scelta di realizzare un bosco dopo l´asportazione del terreno si deve anche ai movimenti popolari che sorsero a Seveso dopo l´incidente e che si opposero con forza alla decisione iniziale della Regione Lombardia di costruire un forno inceneritore per bruciare tutto il materiale inquinato.

Ora bisogna sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema sanitario che si «presenta» di nuovo coi rischi connessi dalla potenziale movimentazione della terra in quella che un tempo era la Zona B di Seveso per la realizzazione di Pedemontana

Diossina. La verità nascosta di Paolo Rabitti

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“Caro sindaco, prima di morire devo dirlo a qualcuno: nell’inceneritore abbiamo smaltito la roba di Seveso.” Siamo a Mantova nel 2002 e chi parla è un anziano ex operaio della Montedison. È da poco deflagrata la notizia che una ricerca epidemiologica ha riscontrato tra gli abitanti della zona contigua al petrolchimico di Mantova una frequenza anomala di sarcoma dei tessuti molli, un tumore correlabile direttamente con la presenza di diossina. Ma è possibile che i resti tossici del più famoso disastro ecologico italiano siano finiti nell’inceneritore di Mantova, quando invece si è sempre sostenuto che fossero stati mandati fuori dall’Italia?

Tutto cominciò, nella lunga indagine sul percorso seguito dai veleni portati via dopo lo scoppio del ’76 alla Icmesa di Seveso, la «Chernobyl brianzola ».

Da allora giorno dopo giorno, anno dopo anno, il super-tecnico non ha smesso di interrogarsi: com’era accaduto che nei quartieri Virgiliana e Lunetta-Frassine di Mantova, a ridosso dell’area industriale, fossero morte per cancro più persone che a Seveso?

Basti pensare, dice l’autore, che «la commissione della Regione Lombardia stilò un rapporto secondo il quale “sembra” che parte delle 1.600 tonnellate di materiale asportato dalla fabbrica dopo il disastro venne smaltita in un inceneritore del Mare del Nord, inceneritore che però non fu indicato. Scrisse proprio così: “sembra”». Il resto del materiale, cioè 41 fusti di diossina e triclorofenolo, «fu affidato a tale Bernard Paringaux, persona che si disse legata ai servizi segreti e che avrebbe dovuto smaltirli in una discarica controllata in Francia». Poi saltò fuori che «erano stati smaltiti probabilmente vicino alle ex miniere di sale della Ddr. Probabilmente»….

Quella di Rabitti, scrive nella prefazione Salvatore Settis, è la denuncia «di un cittadino ben deciso a difendere gli altri cittadini. Che ha ben chiara l’assoluta priorità del bene comune sul profitto dei privati. Che vede questo valore calpestato da un’economia di rapina pronta a tutto (anche la menzogna, anche il delitto) pur di affastellare guadagni». L’area industriale di Mantova è stata inserita dal governo nella lista dei «Siti inquinati di interesse nazionale», ovvero delle peggiori bombe ecologiche del nostro Paese, luoghi dove una bonifica profonda sarebbe necessaria e urgente e invece non è ancora stata fatta.

«L’Unione europea dice che chi inquina paga», ha ricordato Rabitti, «ma qui finora non ha pagato nessuno. E ogni volta che gli enti pubblici ordinano di agire per pulire la falda inquinata, le aziende ricorrono al Tar come ha fatto la Ies».

«Il danno è così grosso che da sole non bastano le risorse private. C’è il rischio che la raffineria se ne vada lasciando il terreno inquinato, come è successo a Cremona». Come è accaduto anche a Bagnoli con l’Ilva, la stessa azienda delle acciaierie di Brindisi, ma pure a Portovesme e, sempre in Sardegna, nel paesino di Furtei, dove la miniera d’oro è stata chiusa e sono rimasti interi laghetti di mercurio e arsenico, mentre le scorie acide sono state usate come manto per il rifacimento della superstrada statale che corre vicina.

Il cacciatore di diossina

Un ingegnere ambientale ha seguito per anni il percorso dei veleni di Seveso. Un viaggio esemplare. Eticamente inquietante:

http://www.corriere.it/sette/editoriali/stella-gian-antonio/2012-20-cacciatore-diossina_5a7b15ac-a030-11e1-bef4-97346b368e73.shtml

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/01/27/pedemontana-lautostrada-che-corre-sopra-diossina-di-seveso-ed-evita-cava-dei-clan/218571/

processo al petrolchimico di Marghera 7/3/2002:

http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-6d37d110-b6da-419a-b466-f408ae26fac4.html

 

La crisi ecologica che attraversiamo

è una crisi sociale, ha le sue origini prima

e soprattutto nella dominazione dell’uomo

da parte dell’uomo, della donna da parte

dell’uomo, dei giovani da parte dei vecchi

e della società da parte dello Stato.

M. Bookchin

 

Rsp (individualità Anarchiche)