centrale nucleare di Fukushima: l’oceano come discarica radioattiva!

Fukushima, storia di un disastro - L'Incontro

Il 24 agosto 2023 in Giappone a Fukushima, è iniziato lo sversamento di un milione di tonnellate di acqua contaminata, direttamente nell’Oceano Pacifico. Lo scarico dovrebbe durare dai 30 ai 40 anni.

Tokyo prevede di scaricare gradualmente nell’Oceano Pacifico più di 1,3 milioni di tonnellate di acqua dell’impianto di Fukushima Daiichi provenienti da acque piovane, sotterranee e da iniezioni necessarie per raffreddare i noccioli dei reattori andati in fusione dopo lo tsunami che devastò la costa nord-orientale del Paese nel marzo 2011, provocando la morte di oltre 20mila persone.

La decisione del governo giapponese di rilasciare da giovedì 24, l’acqua “radioattiva” dell’ex centrale nucleare di Fukushima nell’Oceano, “non tiene conto delle prove scientifiche, viola i diritti umani delle comunità in Giappone e nella regione del Pacifico e non è conforme al diritto marittimo internazionale”.  Lo scrive in una dura nota critica Greenpeace Giappone, aggiungendo che con questa scelta Tokyo “ignora soprattutto le preoccupazioni della popolazione, compresi i pescatori”.  “Il governo giapponese e la Tokyo Electric Power Company TEPCO, i gestori delle centrali nucleari, affermano falsamente che non ci sono alternative alla decisione di scaricare e che è necessario procedere verso lo smantellamento definitivo. Ciò evidenzia ulteriormente il fallimento del piano di smantellamento delle centrali nucleari distrutte dal terremoto del 2011, affermando che decine di migliaia di tonnellate di acqua contaminata continueranno ad aumentare senza alcuna soluzione.

Citando il “The World Nuclear Industry Status Report 2022”, l’organizzazione ambientalista evidenzia che «Il tentativo del governo giapponese di normalizzare il disastro nucleare di Fukushima è direttamente collegato al suo obiettivo generale di politica energetica di aumentare nuovamente il funzionamento dei reattori nucleari dopo il disastro del 2011. Nel 2011 erano disponibili 54 reattori rispetto ai soli 10 reattori nel 2022, generando il 7,9% dell’elettricità nazionale nel FY21 rispetto al 29% nel 2010. Nel frattempo, anche 5 degli altri 6 governi del G7 guidati da Francia, Stati Uniti e Regno Unito stanno promuovendo in modo aggressivo lo sviluppo dell’energia nucleare».

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Pechino ha giudicato il piano giapponese “estremamente egoista e irresponsabile” e ha criticato Tokyo per aver voluto usare l’Oceano Pacifico come una “fogna”.  Il vice ministro degli Esteri cinese Sun Weidong ha persino convocato l’ambasciatore giapponese in Cina “per presentare solenni rappresentazioni” sull’annuncio di Tokyo. Gran parte delle sostanze radioattive viene rimossa dall’acqua che viene messa nei serbatoi, che però continua a contenere il trizio, un isotopo dell’idrogeno che non può essere rimosso, e piccole quantità di altri materiali. Il piano del governo giapponese era stato presentato nel 2021, e da subito era stato molto contestato dalla popolazione locale, da gruppi ambientalisti, dai pescatori e dai paesi vicini al Giappone (in particolare Cina, Corea del Sud e il Forum delle isole del Pacifico, di cui fanno parte tra le altre Australia e Nuova Zelanda). Il piano prevede che la società che gestisce la centrale nucleare di Fukushima, la TEPCO, si occupi di trattare l’acqua per pulirla dalle sostanze radioattive e di farla arrivare dalla centrale alla costa attraverso una conduttura. Sulla costa, le acque verranno diluite con acqua di mare e poi fatte passare attraverso un tunnel sottomarino fino a uno sbocco in mare aperto.

Il rapporto “Decommissioning of the Fukushima Daiichi Nuclear Power Station – From Plan-A to Plan-B Now, from Plan-B to Plan-C” di Greenpeace East Asia espone dettagliatamente i fallimenti della tecnologia di trattamento dei rifiuti liquidi presso l’impianto di Fukushima Daiichi e le minacce ambientali poste dagli scarichi di acque contaminate e Greenpeace International ribadisce che «Non vi è alcuna prospettiva di porre fine alla crisi nucleare della centrale poiché gli attuali piani di disattivazione non sono fattibili. Inoltre, il rapporto rileva che i detriti di combustibile nucleare nei reattori non possono essere completamente rimossi e continueranno a contaminare le falde acquifere per molti decenni. Le affermazioni secondo cui gli scarichi richiederanno 30 anni sono imprecise poiché in realtà continueranno nel prossimo secolo. Le valide alternative allo scarico, in particolare lo stoccaggio e la lavorazione a lungo termine, sono state ignorate dal governo giapponese». Citando il “The World Nuclear Industry Status Report 2022”, l’organizzazione ambientalista evidenzia che «Il tentativo del governo giapponese di normalizzare il disastro nucleare di Fukushima è direttamente collegato al suo obiettivo generale di politica energetica di aumentare nuovamente il funzionamento dei reattori nucleari dopo il disastro del 2011. Nel frattempo, anche 5 degli altri 6 governi del G7 guidati da Francia, Stati Uniti e Regno Unito stanno promuovendo in modo aggressivo lo sviluppo dell’energia nucleare». Lo scorso luglio l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva stabilito che il piano dell’esecutivo giapponese è in linea con gli standard globali di sicurezza e ha un “impatto radiologico trascurabile su persone e ambiente”. L’agenzia ha specificato che manterrà una presenza in loco presso la centrale durante la revisione, e pubblicherà dati che saranno condivisi con la comunità globale, compreso il monitoraggio delle rilevazioni in tempo reale. Lo stesso premier nipponico ha dichiarato che il Giappone continuerà a comunicare il piano ai residenti e alla comunità internazionale ‘con un alto livello di trasparenza’, riducendo al minimo eventuali danni alla reputazione dell’area. Malgrado diversi paesi europei abbiano revocato le restrizioni sulle importazioni di cibo dal Giappone, la Cina ha introdotto test di radiazioni a tappeto sui prodotti ittici provenienti dal Paese vicino, inasprendo ulteriormente le tensioni diplomatiche con Tokyo.

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35 anni fa avveniva il più famoso incidente nucleare della storia. Il disastro di Chernobyl, l’esplosione del reattore numero 4 dell’omonima centrale sovietica che disperse nubi di polveri radioattive in un’area di decine di chilometri, provocando decine di morti accertate e migliaia (se non milioni) di decessi collaterali dovuti a tumori e altri problemi di salute, mai completamente mappati ufficialmente. A più di 3 decenni da una tragedia che gettò in allarme mezzo mondo, gli effetti a lungo termine sulla salute delle popolazioni raggiunte dalla nube radioattiva emessa dalla centrale non sono ancora stati chiariti del tutto. Due nuove ricerche, pubblicate su Science, aggiungono un tassello importante, che aiuterà a guidare le scelte di salute pubblica in caso di nuovi incidenti. Un’eventualità impossibile da scongiurare completamente, come ci ha ricordato appena 10 anni fa il disastro di Fukushima, unico altro incidente nucleare a meritare la classificazione al livello più alto (il 7°) dell’International Nuclear and radiological Event Scale (Ines). Il primo aspetto riguarda il legame tra radiazioni ionizzanti e tumori, un collegamento ovvio, ma non facile da studiare. I dati epidemiologici disponibili avevano fatto emergere già in passato una maggiore incidenza di carcinomi papillari della tiroide nella popolazione delle aree direttamente coinvolte dall’incidente, un’ampia zona tra Ucraina, Bielorussia ed ex territori dell’Urss. È noto inoltre che lo iodio radioattivo, uno dei più pericolosi materiali diffusi da esplosioni ed incidenti atomici, tende a depositarsi su pascoli e coltivazioni in seguito ai fallout nucleari, può essere ingerito attraverso il latte o il consumo di vegetali e si concentra quindi nella tiroide rappresentando un rischio, soprattutto nei primi anni di vita, per lo sviluppo di tumori. Mancava però la pistola fumante, per così dire, perché non esistono marker biologici che permettono di distinguere un tumore causato da radiazioni sviluppatosi naturalmente o per l’esposizione ad altri tipi di inquinanti, ed è quindi difficile studiare esattamente la prevalenza del problema, e identificare i meccanismi con cui le radiazioni provocano lo sviluppo delle neoplasie.

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Non è ancora chiaro infatti se esistano o meno rischi maggiori di alterazioni genetiche nei figli di persone esposte ad un’elevata radioattività, e si tratta di una lacuna importante, visto che chiunque sopravviva a un simile incidente avrà naturalmente delle remore nel pianificare una gravidanza. Per scoprirlo, un team internazionale guidato dai ricercatori del National Cancer Institute americano ha sequenziato l’intero genoma di 105 triadi formate da madre/padre che abitavano entro 70 chilometri dalla centrale all’epoca del disastro o che hanno partecipato alle prime operazioni di bonifica della zona, e dai loro figli. Studiando l’intero nucleo familiare, i ricercatori hanno potuto registrare il tasso di mutazioni de novo presenti nel genoma dei figli, cioè le mutazioni non ereditarie che appaiono per la prima volta nel dna dell’embrione, e che comportano un altissimo rischio per la salute, trattandosi di novità genetiche mai passate per il setaccio della selezione naturale. I ricercatori sono riusciti anche a ricostruire i livelli di esposizione alle radiazioni delle gonadi di entrambi i genitori, ottenendo così risultati affidabili anche in termini di quantità di rischio in proporzione alla quantità di radiazioni ricevute.

Indipendentemente dall’assenza di rischi sulla salute, la dispersione nel Pacifico di acqua radioattiva rischia di estromettere dal mercato tutta la zona di Fukushima. Insomma, chi è disposto a comprare e mangiare del pesce che nuota all’interno di quelle acque? È questa la domanda che si pongono gli operatori del settore ittico.

Trizio

La questione, al di là delle proteste cinesi, continua comprensibilmente a non convincere tutti, in particolare i pescatori e le organizzazioni ambientaliste. Il dubbio principale si chiama trizio (o idrogeno-3), il terzo isotopo (radioattivo) dell’idrogeno dopo il prozio e il deuterio, presente naturalmente nell’atmosfera ma anche nel mare. Questo elemento si può trovare in natura anche grazie alle precipitazioni, in quanto viene continuamente prodotto nell’alta atmosfera grazie all’interazione dei raggi cosmici con l’azoto atmosferico. Prima di essere rilasciata nell’oceano, l’acqua usata per raffreddare l’ex centrale nucleare è stata filtrata con delle tecnologie (gli Advanced liquid processing system, Alps) deputate a eliminare quasi ogni sostanza potenzialmente dannosa per la salute (umana e animale) e per l’ecosistema. Quel quasi si riferisce proprio al trizio, che non può penetrare nell’organismo umano attraverso la pelle ma è pericoloso se ingerito in enormi quantità.

Le tesi ufficiali non convincono però la costola giapponese di Greenpeace. L’8 giugno 2023, scrivono sul loro sito, nei serbatoi della centrale si contavano 1.335.381 metri cubi di acque reflue radioattive stoccate. Tuttavia, a causa del «fallimento della tecnologia di trattamento Alps (Advanced liquid processing system), circa il 70% di queste acque dovrà essere nuovamente trattato». Secondo l’organizzazione ambientalista, che cita alcuni scienziati con cui ha collaborato, «i rischi radiologici derivanti dalle scariche non sono stati completamente valutati». In più, gli impatti biologici del trizio, ma anche del carbonio-14 (o radiocarbonio), dello stronzio-90 (prodotto dalla fissione nucleare dell’uranio) e dello iodio-129 (un altro isotopo radioattivo che rappresenta uno dei principali prodotti di scarto dell’energia nucleare), «sono stati ignorati» dalle autorità. Tutte queste sostanze, seppur gradualmente e sotto la supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, entreranno in contatto con l’ecosistema marino della prefettura di Fukushima (ma non solo).

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Greenpeace punta il dito direttamente contro l’Aiea (nella foto Rafael Mariano Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica), accusata di non aver indagato correttamente sull’efficacia degli Alps – come detto, non sono in grado di filtrare il trizio e altre sostanze – e di aver ignorato la presenza di «detriti di combustibile altamente radioattivo che ogni giorno continuano a sciogliersi nelle falde acquifere, contaminandole.

Shaun Burnie, specialista nucleare di Greenpeace East Asia, pensa che la decisione del Giappone sia dettata dal «mito secondo cui gli scarichi sono necessari per lo smantellamento di una centrale». L’esperto, che parla di «falsa soluzione», sostiene che nell’ex centrale nucleare ci sia lo spazio sufficiente per immagazzinare acqua, e che «lo stoccaggio a lungo termine rivelerebbe le lacune del piano del governo per lo smantellamento dell’impianto». Ci sono poi dei dubbi anche sulla compatibilità tra la dispersione in mare dell’acqua di Fukushima e la risoluzione 48/13 del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, che nel 2021 ha stabilito che avere un ambiente «pulito, sano e sostenibile» è a tutti gli effetti un diritto umano.

Non solo lo scarico negli oceani è l’opzione più economica, ma aiuta il governo a creare l’impressione che si stiano compiendo progressi sostanziali nella disattivazione precoce dei reattori Fukushima Daiichi», si legge nel documento “Stemming the tide 2020. The reality of the Fukushima radioactive water crisis”, che l’organizzazione ambientalista ha pubblicato lo scorso ottobre.

«È la “soluzione” più economica per l’azienda, la Tepco, che in questi 10 anni ha fatto errori gravi a partire dal sistema di trattamento delle acque che non ha funzionato: il 72% dell’acqua stoccata a Fukushima è fuori norma, secondo l’ammissione della stessa Tepco che solo lo scorso agosto ha annunciato che c’è una contaminazione anche da Carbonio-14», ha spiegato a Linkiesta Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia.

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Secondo Onufrio si tratta di una soluzione inaccettabile sia per l’ambiente sia per la salute. «Il gruppo di radioelementi segnalati dall’azienda infatti entra in catena alimentare e si va riconcentrando via via che si passa dal plancton ai molluschi e ai pesci. La dieta giapponese, come in generale quella dei Paesi dell’area, è molto ricca di prodotti ittici, ragion per cui ci dovrebbe essere molta attenzione nella gestione degli scarichi radioattivi». «Non è vero che manca lo spazio, è solo una questione di organizzazione e di costi», ha continuato Onufrio. «A marzo abbiamo presentato una proposta alternativa che prevede l’isolamento dalla falda dell’intera area della centrale coi tre reattori, il passaggio a un sistema di raffreddamento ad aria per evitare di continuare a produrre migliaia di tonnellate di acqua contaminata». La proposta dell’organizzazione ambientalista prevede invece una gestione secolare del sito che andrebbe considerato come un deposito di rifiuti nucleari a lungo termine.

«Il recupero del combustibile fuso dei tre reattori richiederà molto tempo e in un contesto in cui, nonostante gli sforzi, la maggior parte dell’area rimane ancora contaminata oltre i limiti previsti dalle norme. Inoltre la contaminazione della parte forestata – non bonificabile – diventa essa stessa sorgente di contaminazione a causa degli agenti atmosferici che trasportano gli elementi radioattivi».

Dura è stata anche la posizione dei pescatori. «Questa decisione, che non intendiamo accettare, è estremamente deplorevole», ha affermato Hiroshi Kishi (foto sotto), presidente della Federazione nazionale delle cooperative di pesca.

El líder de la industria pesquera de Japón se opone al vertido de agua radiactiva en el mar | Nippon.com

La Cina e la Corea del Sud hanno espresso «forte rammarico», mentre gli Stati Uniti hanno approvato, se pur con cautela, la decisione del Paese nipponico. «Il Giappone ha soppesato le opzioni e gli effetti, è stato trasparente sulla sua decisione e sembra aver adottato un approccio conforme agli standard di sicurezza nucleare accettati a livello globale», ha fatto sapere il dipartimento di stato degli Stati Uniti.

Il 26/4/1986 all’1.23 del mattino, durante un test definito di sicurezza, ma condotto in realtà in aperta violazione di tutti i protocolli e delle più elementari regole del buon senso, il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, esplode. Si tratta del più grave incidente nucleare della storia e, nonostante siano passati 37 anni, alcuni dettagli di questo episodio restano ancora oscuri. Di sicuro si sa che ci fu una fortissima esplosione nel reattore n° 4 della centrale, che ne provocò lo scoperchiamento e scatenò un vasto incendio. A seguito dell’incidente si sprigionò una nube carica di particelle radioattive 500 volte più micidiale di quella prodotta delle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

I venti sparsero le particelle nell’atmosfera e presto vennero contaminate intere regioni di Ucraina, Bielorussia e Russia. La nube raggiunse poi gran parte dell’Europa occidentale, contaminata anch’essa (seppure in misura minore).

Il 29/11/2016 il vecchio sarcofago è stato sostituito da una nuova struttura, impedendo così che una nuova nube composta da 5 tonnellate di polveri radioattive si liberasse nell’atmosfera europea.

Chernobyl, sarcofago montato - RSI Radiotelevisione svizzera

La centrale nucleare di Chernobyl si trova a circa 130 chilometri a nord della capitale ucraina, Kiev, e a circa 20 km a sud dal confine con la Bielorussia. È composta da 4 reattori progettati e costruiti negli anni ’70 e ’80. Per fornire acqua da usare per il raffreddamento dei reattori è stato realizzato un serbatoio artificiale, di circa 22 km quadrati e alimentato dal fiume Pripyat. La città di Pripyat, fondata nel 1970, era la città più vicina alla centrale nucleare a poco meno di 3 km di distanza e ospitava quasi 50.000 persone nel 1986. Una città più piccola e più antica, Chernobyl, era a circa 15 km di distanza e ospitava 12.000 residenti. Il resto della regione era principalmente composto da fattorie e boschi.

L’impianto di Chernobyl utilizzava 4 reattori nucleari di progettazione sovietica, un progetto che oggi è universalmente riconosciuto come “imperfetto”. L’esplosione è avvenuta durante un controllo di manutenzione di routine. Successivamente gli operatori hanno spento i sistemi di controllo vitali con lo scopo di far funzionare il sistema di raffreddamento anche in caso di black-out elettrico, andando contro le norme di sicurezza. A causa della riduzione della potenza, oltre il minimo consentito, il reattore ha raggiunto livelli pericolosamente instabili. L’acqua che avrebbe dovuto raffreddare il reattore evaporò e gli operatori pur attivando la procedura di emergenza persero il controllo del reattore e la potenza aumentò a un valore 100 volte superiore alla norma. Si sprigionò un’improvvisa ondata di energia che ha innescato numerosi incendi. Le due esplosioni che hanno fatto volare via il tetto a cupola del reattore e l’incendio che ne è seguito hanno rilasciato enormi quantità di materiale radioattivo nell’ambiente. Il reattore e la massa di grafite che lo circonda incominciarono a bruciare a una temperatura di 1500 gradi scaraventando nell’aria i fumi di scorie radioattive. Le squadre di sicurezza impiegarono 12 giorni per spegnere gli incendi nonostante le 5000 tonnellate di boro e piombo che gli aerei scaricavano sulle fiamme per tentare di soffocare l’incendio della grafite e tamponare la fuoriuscita di radiazioni.

Il governo sovietico cercò di nascondere l’incidente al mondo intero; tuttavia l’allarme si diffuse rapidamente, man mano che la radioattività veniva rilevata: il 27 aprile la nube raggiunge la Polonia, il 28 l’enorme aumento della radioattività è denunciata dai laboratori svedesi e l’URSS dovette rivelare la verità sul disastro nucleare. Il 1° maggio la nube raggiunge l’Italia e la Francia e i governi occidentali adottarono misure per proteggere la salute della popolazione dando indicazioni per ridurre l’esposizione al pericolo. Dopo circa un mese l’allarme in occidente cessò, ma l’area intorno alla centrale resterà contaminata in modo permanente.

36 anni fa il disastro di Chernobyl, il pericolo mai cessato nell'Ucraina occupata da Mosca - BeneventoNews24.it

https://www.lifegate.it/energia-nucleare-nel-mondo

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Tutti i governi, sedicenti liberatori, promisero di

smantellare le fortezze erette dalla tirannia per tenere

in soggezione il popolo;

ma, una volta insediati, lungi dallo smantellarle,

le fortificarono ancora meglio, per continuare

a servirsene contro il popolo

Carlo Cafiero

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Cultura dal basso contro i poteri forti

Rsp (individualità Anarchiche)