Assolti gli sbirri che uccisero e torturarono in caserma Giuseppe Uva

 

Assolti gli sbirri che uccisero e torturarono in caserma Giuseppe Uva

La mafia è nello stato e nella polizia ……

 

15 Aprile 2016

Sono stati assolti i sei poliziotti e i due carabinieri (infami! 8 contro 1) accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti di Giuseppe Uva, l’operaio di 43 anni, l’uomo morto a Varese nel giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri. Era stato lo stesso titolare dell’accusa, il procuratore capo di Varese Daniela Borgonovo a chiedere l’assoluzione per tutti ( molto probabilmente ricompensata dai sindacati di polizia per salvare l’onore, l’etica e la morale delle forze dell’ordine, e poi, lo stato non condanna se stesso…).

Il caso di Giuseppe Uva è un insieme di carte, perizie, udienze, pareri, lungaggini varie, polemiche, querele e controquerele. Una storia che si apre e si chiude dal 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero, stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria.

«Beppe aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere»: a rivelarlo ai mass media è Alberto Biggiogero, l’amico che la sera del 13 giugno 2008 viene fermato assieme a Beppe per schiamazzi notturni. «Me l’aveva detto un po’ di tempo prima di morire — ricorda Alberto —. Non so chi fosse questa donna né chi fosse il marito, ma Beppe mi aveva detto “un carabiniere mi ha promesso che me la farà pagare”». Anche la sorella di Uva ammette che il fratello aveva avuto una relazione con la moglie di uno sbirro…..

Un comportamento infame quello che è successo in caserma quella sera, un comportamento da psicopatici sbirromafiosi che secondo la loro mentalità e la loro cultura del codice d’onore, bisogna lavare col sangue il disonore fatto alla sua famiglia, per riavere il rispetto dei picciotti …….

Molti sbirri impuniti fanno parte dei servizi segreti, gli stessi che negli anni ‘60 e ’70 torturavano e mettevano le bombe per incolpare il movimento di studenti e lavoratori che si ribellavano alle ingiustizie sociali (vedi: strage di piazza fontana, l’inizio della strategia della tensione attuata dai servizi segreti).

Il 15 giugno 2010 Alberto Biggiogero, consegna una denuncia per lesioni, ingiurie e minacce alla procura della repubblica. Nell’esposto si descrive uno scenario da incubo: l’atteggiamento aggressivo dei militi, in particolare di uno di loro che subito apostrofa Uva, gridandogli «cercavo proprio te», e poi «un’ora e mezzo di pestaggio» nella caserma di via Saffi, la chiamata al 118, l’intervento dell’ambulanza bloccato, il sequestro del telefonino. Quello stesso 15 giugno, sia Uva che Biggiogero, furono a loro volta denunciati per «disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone», come riporta il processo verbale redatto dai due militari dell’arma che avevano bloccato i due amici in piazza Madonnina del Prato. Di punti oscuri la vicenda ne ha fin troppi: come le dichiarazioni, ignorate, del comandante del posto di polizia presso l’ospedale che nel suo rapporto esclude la natura «non traumatica» della morte e rileva «una vistosa ecchimosi rosso-bluastra» sul naso, e che «le ecchimosi proseguono su tutta la parete dorsale».

Nessuno dei carabinieri coinvolti nella vicenda o degli agenti della polizia di stato, stranamente accorsi in forze nel comando dei carabinieri la sera del pestaggio, è mai stato ascoltato fino ad oggi dai magistrati che indagano ……

Sempre nel 2010 dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto” ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, “resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all’interno della caserma di via Saffi”. Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un’ambulanza. “Stanno massacrando un ragazzo” sussurra all’operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l’autoambulanza. “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui – risponde un militare – ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi”. …..

Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva (e non per gli sbirri psicopatici e cocainomani che lo hanno torturato e stuprato per ore…). Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici (gli unici indagati dell’intera storia) gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l’alcol bevuto durante la notte.

“Un caso limpido di diritti violati nell’indifferenza più totale – denuncia ora Luigi Manconi – . Infatti, per quanto accaduto all’interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti”.

Otto anni di indagini non sono riuscite a chiarire cosa sia successo durante le due ore in caserma…..

In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, a Varese. L’accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula pienissima nell’aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell’ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato…..

Nel dicembre del 2013 il procuratore generale della Corte di Cassazione Gianfranco Ciani ha inviato al ministro della giustizia e al Csm una richiesta di procedimento disciplinare contro il pm di Varse. Secondo Ciani, durante le indagini, Abate «è venuto meno agli obblighi generali di imparzialità, di correttezza e di diligenza». Inoltre, sempre Abate, durante la sua gestione dell’inchiesta, aveva aperto ben tre fascicoli: uno contro i medici dell’ospedale di Varese – che non avrebbero curato Uva in modo adeguato –, uno contro la sorella della vittima, Lucia, e uno contro alcuni giornalisti che si ostinavano a definire la morte dell’uomo come conseguenza di un pestaggio da parte di polizia e carabinieri. Insomma, la procura se l’è presa con tutti, proprio con tutti, tranne che con quelli che poi sarebbero stati rinviati a giudizio, cosa avvenuta (ovviamente, verrebbe da dire) soltanto dopo che sono stati cambiati i pm responsabili dell’inchiesta, dopo che il gip di Varese, per ben due volte, aveva rispedito al mittente la richiesta di archiviazione (vergata, va da sé, dalla coppia Abate – Arduini) per gli agenti, arrivando infine all’imputazione coatta. Questi i loro nomi, per la cronaca e per la storia: Paolo Righetti, Stefano Del Bosco, Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone, Bruno Belisario e Vito Capuano.

«Il dottor Abate – scrisse ancora Ciani – ha pregiudizialmente eluso una puntuale disposizione del Tribunale ed ha violato le norme del procedimento che impongono al pubblico ministero di svolgere le indagini necessarie per l’accertamento dei fatti». Ovvero: malgrado gli sia stato detto da chiunque di indagare su quanto avvenuto nella caserma di via Saffi, lui ha puntualmente evitato di farlo: per questo sarebbe venuto meno «il dovere generale di correttezza» da parte dell’investigatore.

Lo scorso lunedì 18 aprile, la sorella di Uva, Lucia, era stata assolta dall’accusa di diffamazione. Il 21 di questo mese, si è saputo che uno dei difensori degli imputati, Pietro Porciani, ha denunciato Lucia Uva, sempre per diffamazione, per alcune dichiarazioni in un video sul profilo Facebook di cui il legale chiede il sequestro. L’avvocato e i suoi assistiti, scrive il legale nella denuncia, avevano sempre razionalmente deciso di non dare peso agli ‘eccessi’ della Uva sia perché, da una parte, umanamente sì riteneva che essi fossero tutto sommato dovuti al dolore e allo stress per la perdita, comunque tragica, del parente, sia perché, d’altra parte, gli imputati hanno sempre ritenuto che la dimostrazione della loro totale innocenza rispetto al gravissimo delitto contestato, assumesse carattere assolutamente prioritario rispetto ad ogni facile attenzione “mediatica ricercata con pervicacia e determinazione da essa Lucia Uva”. Il video, però, ha fatto decidere al legale di querelare la donna.

 

Rsp (individualità Anarchiche)